In quell’eterna indolente domenica pomeriggio che è Twitter c’è posto per tutto: “Would you like to fight for civil rights or tweet a racial slur?”, ci chiedeva Bo Burnham in una delle sue brillanti canzoncine rimasteci in testa dopo aver visto il suo speciale su Netflix. Ma quando non si lotta per i diritti civili, tra un trending topic e l’altro, da qualche tempo sui social network ci si accapiglia sul più insondabile dei misteri, dando involontariamente vita a una diatriba gnoseologica permanente sull’imprendibile pietra filosofale di questi anni intellettualmente perduti: la cancel culture.
Che l’espressione provochi contemporaneamente irritazione cutanea, nausea ed epistassi a molti – me compreso – non è un caso: anche rimanendo nei confini immaginari dell’internet italiano, nell’ultimo anno è diventata la parola d’ordine di scontri più e meno fratricidi che hanno portato seri professionisti, tuttologi improvvisati, stimati accademici, pensosi titolari di dottorati, prolifici giornalisti e generici ossessionati a berciarsi contro per ore ogni giorno, scomunicandosi a vicenda e accusandosi con crescente veemenza in gogne a spirale ricche di fallacie e screenshot.
Da una parte c’è chi si fa portavoce delle minoranze e denuncia in ogni incarnazione del sistema socio-politico corrente – e anche in parecchi tweet innocui, a onor del vero – una pistola fumante del “privilegio” dell’onnipresente, stereotipico “maschio bianco cis-etero” ai danni degli oppressi, mutuando il glossario della critical theory statunitense e intervenendo con l’urgenza collettiva che ne consegue; nell’angolo opposto, chi tende a vario grado alla concettualizzazione di un’improbabile “dittatura” del politicamente corretto, che – ad ascoltare la destra salvinian-meloniana, sua principale propugnatrice alle nostre latitudini – si concretizzerebbe nella rimozione sistematica e intrinsecamente iconoclasta di tutto ciò che è senso comune, tradizione e valore condiviso.
Poco sorprendentemente, un dibattito partito con queste premesse si è rivelato non essere un dibattito: avventurandosi nel discorso con una posizione approfondita che non si riduce all’assolutismo incallito di nessuno dei due poli in lotta, il solito proverbiale e sventurato alieno di passaggio sulla Terra si troverà accusato di sostenere la caccia alle streghe di invasati da una parte, e di interpretare il poco encomiabile ruolo dell’utile idiota dei reazionari dall’altra. Trovatosi tra i due fuochi di thread incrociati, oscuri non sequitur e accostamenti polemici a estremismi contrapposti, probabilmente l’alieno riguadagnerà in fretta la scaletta della sua navicella e tornerà felice a forme di vita più intelligenti.
In mancanza di quest’opzione, però, rimaniamo in questa galassia: anzitutto va detto che non si nota traccia di alcuna «dittatura del politicamente corretto» che possa turbare il nostro sonno, specialmente in Italia, dove il discorso pubblico rimane anzi dominato dall’implicita regola per cui tutto è dicibile e quasi tutto fattibile. Il pol.corr. di per sé, peraltro, non è affatto una iattura, ma solo un necessario cambio di paradigma linguistico-culturale che tiene conto di nuove sensibilità in società, come quelle occidentali, che negli ultimi decenni hanno visto cambiare radicalmente la loro composizione demografica e parte dei loro valori condivisi.
Sgombrato il campo dal babau della correctness rimane lei, la kryptonite e l’ambrosia: sua maestà la cancel culture. Il termine, usato in modo impreciso come sinonimo di politicamente corretto, si riferisce in realtà a tutt’altro. Dovendo riassumerne il significato, si potrebbe tentare con: la tendenza a chiedere che una rappresentazione di idee o atteggiamenti contrari alla morale corrente – che siano stati espressi il giorno precedente o dieci anni prima non fa granché differenza – non venga soltanto criticata e portata ad avviare nuove e più inclusive discussioni, com’era la migliore prassi in precedenza, ma anche punita con la decadenza immediata da ogni ruolo e piattaforma (anche privati o professionali) del responsabile, sull’onda di shitstorm organizzati ad hoc su Twitter e altrove. Se il politicamente corretto in Italia è ancora un miraggio, la cancel culture ha invece già i suoi adepti, perché nella vita culturale delle nicchie online i confini sono labili, e gli strumenti direttamente gli stessi.
I casi di cancel culture – anch’essa, ovviamente, un fenomeno che poco ha a che fare con le caratterizzazioni grottesco-emergenziali che ne fa la destra – abbondano, e spesso arrivano da sinistra (anche se dire che «arrivano da sinistra» non significa che tutti gli attivisti più impegnati a sinistra agiscano in questo senso, né che la destra ne sia esente), per il semplice ma rilevante fatto che i messaggi di inclusione trovano terreno fertile nel pubblico dei social network e negli interessi economici delle aziende, e difendere un principio buono e giusto con metodi giacobini risulta genericamente meno sanzionabile.
Esempi concreti di questo oggetto misterioso, brandito e sbertucciato? Eccone un po’: a maggio del 2020 il sondaggista politico David Shor ha perso il lavoro per aver twittato dati che rivelavano che alcuni episodi di vandalismo a Minneapolis seguiti all’uccisione di George Floyd avevano rinvigorito il consenso dell’allora presidente Trump (e molti a sinistra hanno pensato che se lo fosse meritato); nel 2018 l’allora direttore della New York Review of Books, Ian Buruma, ha visto terminare bruscamente la sua carriera di accademico e scrittore per aver pubblicato sulla sua rivista il saggio di un autore precedentemente scagionato in tribunale da accuse di violenza sessuale; nell’estate dell’anno scorso il compositore Daniel Elder ha postato sul suo account Instagram un messaggio in cui si lamentava del rogo dello storico municipio di Nashville, la sua città, durante una manifestazione di Black Lives Matter: la sua etichetta ha smesso di pubblicarlo, e i cori preferiscono non cantare la sua musica temendo danni d’immagine.
A marzo la giornalista afroamericana Alexi McCammond, che di lì a poco sarebbe diventata la nuova direttrice di Teen Vogue, è stata costretta a farsi da parte per una serie di tweet xenofobi risalenti a dieci anni prima, quando non era ancora maggiorenne (poco dopo Christina Davitt, una delle giornaliste della testata più attive nel rimprovero pubblico collettivo contro McCammond, è finita nell’occhio del ciclone a sua volta per alcuni tweet del 2009 in cui usava la famigerata n-word); ad aprile l’American Humanist Association ha ritirato, dopo 25 anni, il premio di Humanist of the Year conferito nel 1996 al divulgatore e biologo britannico Richard Dawkins, colpevole di aver postato un tweet mal interpretabile sulle persone transgender.
Esempi come i precedenti sono diventati parte integrante delle cronache quotidiane d’oltreoceano, oltre che le linee lungo cui si combattono le culture wars di cui ci arriva un’eco attutita ma discussa: a giugno del 2020 la Tulane University di New Orleans ha cancellato un incontro con l’autore di un acclamato libro antirazzista, “Life of a Klansman” di Edward Ball – in cui Ball ricostruisce la storia del suprematismo bianco a partire da un bisnonno unitosi al Ku Klux Klan – perché diversi studenti, associazioni e altri corpi universitari hanno visto nell’invito una scelta «dannosa e offensiva»; tra il 2018 e il 2019 l’Università del Wisconsin si è piegata a una petizione che chiedeva di rimuovere dai suoi campus il nome dell’attore degli anni Trenta Fredric March (“È nata una stella”), dato che più di cent’anni prima era stato parte per pochi mesi di un gruppo studentesco omonimo (ma precedente) del Ku Klux Klan, che tuttavia non aveva niente da spartire con l’organizzazione suprematista bianca (March, ha spiegato sul New York Times il linguista afroamericano John McWorther, era peraltro un acceso nemico delle disparità razziali, e nella sua vita si è trovato spesso al fianco di Martin Luther King).
A marzo il columnist del Times Charles M. Blow ha visto nelle goffe e ridicolizzate avances del personaggio dei cartoni animati Pepe la puzzola un simbolo della «rape culture» di cui faremmo bene a disfarci; il biografo di Philip Roth, Blake Bailey, ha assistito alla messa al macero della sua opera per accuse di molestie risalenti a trent’anni prima; ad agosto del 2020 Greg Patton, un professore di cinese della University of Southern California, è stato sospeso per aver pronunciato un intercalare della lingua cinese che, per sua sfortuna, ha un’assonanza con la n-word; a maggio la giornalista di Associated Press Emily Wilder è stata licenziata da Associated Press dopo essere finita nel tritacarne di una gogna online innescata da un’associazione studentesca di destra di Stanford per le sue simpatie pro-Palestina. Eccetera, eccetera, eccetera.
Davanti a questa babelica cornucopia di casi suona difficile ripetere, come fanno molti per partito preso a sinistra, che “la cancel culture non esiste”. Eppure succede ogni giorno: “la cancel culture non esiste” è diventato una specie di passepartout di integrità ideologica, un sinonimo di progressismo senza macchia, in alcuni ambienti qualcosa di non lontano da un lasciapassare di riconoscimento.
Quando mi capita di discutere con persone – spesso in buona fede e con idee progressiste, beninteso – di casi di cancellazioni evidenti, o di gogne con effetti annientanti sulla vita delle persone (la storica Anne Applebaum, nel suo recente magistrale saggio sull’Atlantic, ha raccolto le testimonianze delle vittime dirette e collaterali di cancel culture, che comprendono anche storie di suicidi) di solito mi trovo davanti a tre reazioni distinguibili: la prima dice, in essenza, che le vittime non sono poi così vittime, e in ogni caso se la caveranno trovando nuovi pubblici più adatti a loro; d’altronde se sono state prese di mira dai militanti per la giustizia sociale saranno a vario titolo privilegiate, no? (Non proprio: lo dimostra la lista sopra); la seconda sostiene che per il greater good dell’equità sociale, qualche effetto collaterale può essere tollerato: d’altronde quanto a lungo i neri, i transgender e le persone non binarie, tra gli altri, sono stati marginalizzati? (Al di là dell’inaccettabilità di un argomento che predica un livellamento verso il basso fatto di vendette postume e indiscriminate, non è chiaro come non far lavorare un compositore o rimuovere Pepe la puzzola dalla tv per bambini cambierà qualcosa nella quotidianità delle minoranze); la terza obietta che sì, il fenomeno alla base è evidente a tutti – d’altronde le gogne sono sempre esistite, giusto? – ma “cancel culture” è un’espressione inventata dalla destra, e usarla fa evidentemente il gioco della destra (detto che il termine è entrato nel linguaggio corrente e non esistono, al momento, sinonimi utilizzabili: stiamo forse affermando che un fenomeno si può indagare, studiare ed eventualmente criticare solo se non potrebbe essere strumentalizzato da Salvini? Smetteremmo mai di dirci a favore dell’accoglienza indiscriminata dei profughi perché altrimenti, signora mia, “si fa un favore a Salvini”?).
Alla radice di quello che chiamiamo cancel culture, a ben vedere, ci sono gli strumenti sui quali viene messa in atto: i social network. Abbiamo delegato il dibattito pubblico e culturale a luoghi pensati per elidere le sfumature, scavare trincee, plagiare, massimizzare le divisioni e renderci irosi e manichei; piattaforme private in cui l’hate speech viene diffuso tutt’altro che «in maniera del tutto irrilevante», come talvolta sostenuto in scioltezza da editorialisti nostrani forse poco aggiornati, ma i cui stessi piani di business si fondano sul carburante altamente inquinante dell’engagement a ogni costo.
Il Wall Street Journal ha recentemente ottenuto un documento interno di Facebook che prova che uno dei più fondamentali aggiornamenti dell’algoritmo di Menlo Park, nel 2018, ha avuto «effetti collaterali malsani» sulle conversazioni online, contribuendo a un’ulteriore polarizzazione e a un drastico impoverimento del dibattito. La fenomenologia dello shitstorm è ancora quella individuata dal saggio del 2015 che ha aperto le porte della discussione sulle gogne a mezzo internet, “I giustizieri della rete” (Codice) di Jon Ronson, ma il suo campo d’applicazione è sempre più strutturato e pervasivo.
Per verificare la qualità dell’aria basta fare come i migliori reporter: recarsi sul posto. Una qualunque mezz’ora su Twitter e Facebook rivelerà utenti sempre più asserragliati in enclosures di gruppi ormai in tutto e per tutto indistinguibili da ordini sacerdotali, dove a comandare sono intelligenza collettiva e un marcato spirito di corpo, e in cui una singola polemica col passare dei giorni può generare dozzine, centinaia di messaggi variamente accaniti, retoricamente violenti, ossessivi, con toni esacerbati e molto spesso del tutto fuori scala rispetto ai loro bersagli. Astrusi sub-tweet sul nemico di turno chiamano a raccolta visualizzazioni e follower con un fischio; banalizzazioni, imprecisioni e bugie dure e pure, l’apostrofo rosa dei 280 caratteri, creano sapienti esche di ingaggio a cui è impossibile non abboccare. Insultereste mai in dodicimila un tizio che ha fatto una battuta ottusa al supermercato? Desiderereste mai che perdesse il lavoro a causa di quella battuta?
Leggo spesso che quanto sta avvenendo è intrinsecamente legittimo, in quanto espressione pratica di un fenomeno di per sé positivo come il politicamente corretto, che sta solo sanando – in modo perfettibile, certo – un problema di rappresentazione “sistemico”, colmando il gap tra “privilegiati” e “oppressi”; rendendo, insomma, il mondo un posto migliore. Ma un mondo in cui il nemico è sempre alle porte (e si nasconde in ogni minimo possibile marker che per alcuni evoca, anche lontanamente, un’eterodossia morale: da una vignetta ironica sulla schwa di un fumettista, a una battuta sui pronomi inclusivi di una comica), dove il dialogo è non solo impossibile, ma sovente orgogliosamente rifiutato, e nel quale gli strumenti di comunicazione favoriscono by design la delazione e la molestia reciproca non è affatto migliore.
Postulare una scelta univoca e “politica” tra sostenere le battaglie delle minoranze e denunciare un clima culturale di censura, gogne e abusi è una scorrettezza argomentativa da assemblea liceale, una falsa opposizione. Fare le veci di gruppi sottorappresentati per poi sostituirsi regolarmente ad essi nei tribunali online, sminuendo de facto la loro capacità di raccontarsi, autodefinirsi e generare dissenso diretto (il rogo che è costato la carriera al compositore Daniel Elder era stato appiccato da un ragazzo bianco come lui) è almeno un controsenso. Proclamarsi in favore della sensibilità e del rispetto altrui e non tenere conto di trascurabili dettagli come il contesto, le intenzioni e gli effetti sulle vite personali delle vittime di shitstorm suona quantomeno contraddittorio. Per dirsi veramente corretto, il mondo in fase di rinnovamento dovrà anche tornare a occuparsi di antichi errori, a partire dai sani principi diventati mero sfoggio di virtù.