Non c’è niente di più difficile da fare del non fare niente. In un mondo in cui il valore di ciascuno è determinato dalla produttività, ci ritroviamo spesso con ogni nostro singolo minuto catturato, sfruttato o confiscato come una risorsa finanziaria dalle tecnologie che usiamo tutti i giorni.
Sottoponiamo il tempo libero a valutazione numerica, interagiamo con versioni algoritmiche di ciascuno di noi, creiamo e alimentiamo brand personali. Alcuni provano, forse, una sorta di soddisfazione ingegneristica nel fare streaming e mettere in rete la propria intera esperienza di vita. Eppure, permane una certa nervosa sensazione di essere sovrastimolati e incapaci di sostenere un flusso di pensieri.
Nonostante possa essere difficile da individuare prima che scompaia dietro il paravento della distrazione, in realtà si tratta di una sensazione pressante. Abbiamo la tendenza a collegare la maggior parte di ciò che dà senso alla vita a casualità, contrattempi e incontri fortuiti: il classico “imprevisto”, che una visione meccanicistica della vita tenta di eliminare.
Già nel 1877, Robert Louis Stevenson ha definito la frenesia “sintomo di una mancanza di energia”, osservando l’esistenza di “una categoria di morti viventi deprivati di originalità che hanno appena coscienza di vivere se non quando svolgono qualche attività convenzionale”. E, dopotutto, si vive una volta sola. Seneca, nel De brevitate vitae, descrive l’orrore di guardarsi indietro e vedere come la vita ci sia sfuggita tra le dita; e sembra proprio la stessa sensazione che proviamo quando ci risvegliamo dal torpore dopo un’ora su Facebook:
Rievoca nella memoria e considera […] quanti hanno saccheggiato la tua vita senza che ti accorgessi di quel che perdevi, quanta te ne ha sottratta un vano dolore, una stolta gioia, un’avida passione, un’allegra compagnia, quanto poco ti è rimasto di te: comprenderai che stai morendo prematuramente!
A livello collettivo, la posta in gioco è più alta. Sappiamo di vivere in tempi complessi che richiedono pensieri e conversazioni altrettanto complessi che, a loro volta, necessitano di tempi e spazi impossibili da trovare. La comodità della connessione illimitata ha nettamente soppresso le sfumature delle conversazioni interpersonali, eliminando nel mentre una serie di informazioni e contesto. In un ciclo continuo in cui la comunicazione risulta indebolita e il tempo è denaro, sono pochi i momenti per eclissarsi e ancora meno i modi per trovarsi a vicenda.
Vista la fatica con cui l’arte sopravvive in un sistema che valuta solo il risultato finale, la posta in gioco è anche culturale. Ciò che hanno in comune il gusto per un destino legato a un manifesto tecnologico neoliberale e la cultura di Trump è l’impazienza verso qualunque cosa sia sfumata, poetica o lontana dall’ovvietà.
Questi “niente” non si possono tollerare, perché non possono essere usati o confiscati e non producono risultati concreti. (In tale contesto, il desiderio di Trump di tagliare i fondi al National Endowment for the Arts non sorprende affatto.) All’inizio del XX secolo, il pittore surrealista Giorgio de Chirico prevedeva orizzonti limitati per attività “improduttive” come l’osservazione. Scriveva:
Di fronte all’orientamento sempre più materialista e pragmatico del nostro tempo, […] non appare eccentrico ipotizzare una futura organizzazione sociale in cui l’uomo che ricerca unicamente i piaceri spirituali non abbia più il diritto di reclamare il proprio posto al sole. Lo scrittore, il filosofo, il sognatore, il poeta, il metafisico, l’osservatore […], chiunque percepisca il mistero e lo apprezzi diventerà una figura anacronistica, destinata a sparire dalla faccia della terra al pari degli ittiosauri e dei mammut.
Questo libro parla del modo in cui mantenere quel posto al sole. È una guida sul non fare niente come atto di resistenza politica all’economia dell’attenzione, con tutta l’ostinazione di una “nail house” cinese, ovvero una casa chiodo che blocca un’autostrada. Lo desidero non solo per artisti e scrittori, ma per chiunque percepisca la vita come più di uno strumento e quindi qualcosa che non si possa sfruttare. Un semplice rifiuto è la motivazione del mio ragionamento: il rifiuto di credere che, per alcuni, il tempo, il luogo presente e le persone che sono con noi non siano abbastanza.
Piattaforme come Facebook e Instagram agiscono come dighe che accumulano un naturale interesse verso gli altri e un eterno bisogno di comunità, monopolizzando e ostacolando i nostri desideri più profondi e traendone vantaggio. La solitudine, l’osservazione e la semplice convivialità dovrebbero essere riconosciute non solo come fini a se stesse, ma come diritti inalienabili appartenenti a chiunque sia così fortunato da essere vivo.
da “Come non fare niente. Resistere all’economia dell’attenzione”, di Jenny Odell, Hoepli, 2021, pagine 272, euro 19, 90