Purtroppo è molto più complicata di quanto appaia dalle cronache giornalistiche la vicenda di Mario, il 43enne tetraplegico, vittima dieci anni fa di un gravissimo incidente stradale e da allora completamente paralizzato.
Il Comitato etico della Regione Marche ha riconosciuto nel suo caso sussistenti i presupposti stabiliti dalla sentenza 242 /2019 della Corte Costituzionale per considerare non punibile l’aiuto al suicidio – patologia irreversibile, grave sofferenza fisica o psicologica, dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e capacità di prendere decisioni libere e consapevoli – in cui ha però nel contempo dichiarato di non potere fornire una valutazione in ordine alla dose e alla modalità di somministrazione del farmaco (Tiopentale sodico) da utilizzare ai fini del suicidio assistito e di non essere competente a indicare opzioni alternative a quella, non valutabile, indicata dall’interessato. Insomma, un mezzo ponziopilatismo burocratico.
D’altra parte, il parere del Comitato etico regionale è arrivato a seguito di un’ordinanza del Tribunale di Ancona che si era prudentemente guardata dal riconoscere il “diritto al suicidio” di Mario, ma aveva invece riconosciuto il suo «diritto di ottenere dalla struttura sanitaria pubblica competente l’accertamento dei presupposti illustrati dalla Corte Costituzionale nella (…) sentenza del 2019». Anche qui, diciamo, siamo in zona prefetto della Giudea.
Il gioco a rimpiattino tra i giudici e istituzioni politiche e amministrative marchigiane (Regione e Azienda sanitaria unica regionale), che ora hanno rimesso nuovamente al giudice la decisione sulla possibilità di dare corso alla richiesta di Mario, è una conseguenza del rimpallo di richieste e non-risposte tra Corte Costituzionale e Parlamento dopo il caso di Fabiano Antoniani (Dj Fabo).
La procura milanese nell’ambito del processo a Marco Cappato, che l’aveva accompagnato a morire in Svizzera, aveva sollevato una questione di costituzionalità in ordine all’applicazione dell’articolo 580 del codice penale nell’ambito di pratiche eutanasiche e la Consulta, pur senza proclamare il diritto al suicidio assistito, ma riconoscendo costituzionalmente obbligata la previsione di scriminanti per il reato di aiuto al suicidio, cioè di cause di giustificazione lato sensu eutanasiche, aveva lanciato un vero e proprio ultimatum alle camere, perché entro un anno disciplinassero la materia conformemente a questo indirizzo. Trascorso inutilmente il termine, la Corte Costituzionale era quindi intervenuta con una pronuncia che introduceva direttamente le scriminanti previste nell’art. 580 del codice penale, senza potere ovviamente disciplinare in positivo la materia.
Da allora manca una legge di attuazione della decisione della Consulta e le costanti iniziative giudiziarie che, con lo strumento della disobbedienza civile o dell’assistenza legale ai malati, l’Associazione Luca Coscioni sta animando, sono una risposta obbligata a questa vera e propria inadempienza.
All’obiettivo di accrescere la pressione esterna sulle camere è evidentemente finalizzata anche l’iniziativa del referendum, su cui si sono raccolte in estate oltre un milione di firme e che ha sollevato polemiche e discussioni accese per la scelta dei promotori di legalizzare direttamente l’omicidio del consenziente, sulla base del postulato, molto contestato dai critici che l’applicazione della nuova norma, al di là del tenore letterale della disposizione residuata al ritaglio referendario dell’art. 579 del codice penale, potrebbe trovare attuazione solo in fattispecie eutanasiche, sottoposte a una verifica medica, su cui varrebbero gli stessi presupposti previsti dalla Corte Costituzionale ai fini della non punibilità dell’aiuto al suicidio.
In ogni caso, su questa materia, più ancora che su quella, pure contigua, delle disposizioni anticipate di trattamento e della libertà terapeutica (rifiuto o revoca del consenso alle cure), ora regolata dalla legge 219/2017, la necessità di una disciplina legislativa appare di prepotente urgenza, non solo per garantire diritti, che al momento restano solo sulla carta, come appunto quello di Mario, ma anche per impedire che la materia sfugga a una regolazione coerente e rimanga, come sostiene chi paventa il rischio di una “liberalizzazione eutanasica”, rischiosamente alla mercé di iniziative unilaterali e di pronunce giudiziarie, e contenuta nel perimetro improprio del diritto penale.
Sono passati ormai più di tre anni dalla prima decisione della Consulta e il dibattito parlamentare è ben lungi dal concludersi. I due punti centrali di una legge saggia e garantista dei diritti del malato – sia di decidere di morire, sia di non essere condizionato in direzione di una scelta eutanasica – sono rappresentati da una definizione precisa delle condizioni oggettive in cui il diritto sia esercitabile (a questo scopo soccorrono le pronunce della Corte Costituzionale) e dalla semplificazione di una serie di distinzioni casistiche (a partire da quella tra il suicidio assistito e l’eutanasia diretta, cioè, penalisticamente, tra l’aiuto al suicidio e il cosiddetto omicidio del consenziente), che non hanno concretamente alcuno spessore bioetico.
L’atto con cui il personale sanitario rende disponibile il farmaco che cagiona la morte a un malato in grado di azionare personalmente il sistema di somministrazione (aiuto al suicidio) non diverge in nulla, in termini di responsabilità deontologica, dall’atto in cui sia direttamente il medico a somministrare il farmaco mortale (omicidio del consenziente), di fronte all’impossibilità materiale a provvedervi da parte dell’interessato.
È irragionevole e grottesco sostenere che un paziente nelle condizioni di Dj Fabo abbia un diritto di morire “a scadenza”, cioè fino al momento in cui sia ancora in grado di azionare un dispositivo meccanico. E ai pazienti come Eluana Englaro, in coma vegetativo permanente, pur di fronte a una chiara indicazione di volontà, la legislazione eutanasica dovrebbe forse negare la possibilità riconosciuta ai pazienti come Dj Fabo, e riservare loro il solo diritto all’eutanasia passiva, attraverso la sospensione dei trattamenti di sostegno vitale?
Questa esigenza di chiarezza sta alla base del referendum proposto dall’Associazione Coscioni sull’art. 580 del codice penale, al di là del giudizio tecnico sulla formulazione del quesito, in larga misura obbligata dalla natura esclusivamente abrogativa dello strumento.
Dall’altra parte, serve una legge anche per chiarire l’equivoco ricorrente per cui la legalizzazione dell’eutanasia stabilirebbe il diritto di morire anziché di vivere, quando stabilisce il diritto tutt’affatto diverso di morire bene, anziché male o meglio, anziché peggio. In una prospettiva bioetica, anche la cura sollecita per i bisogni morali e materiali del morente è una forma di eutanasia, e per questo non ha senso contrapporre cure palliative e suicidio assistito: rappresentano mezzi diversi in vista dello stesso fine, cioè quello di assicurare un trapasso il più possibile sereno.
La morte “buona” non è necessariamente la morte indotta, ma in ogni caso per essere buona deve corrispondere ai desideri del morente; per questo dal punto di vista linguistico il termine eutanasia (in greco εὐθανασία, da εὖ, “bene” e θάνατος, “morte”) è stato storicamente utilizzato anche al di fuori dell’ambito medico, ad esempio nella letteratura teologica per indicare la “morte felice” o “il passaggio dolce e tranquillo ed in istato di grazia”.
Il legislatore dovrebbe essere consapevole (o meglio: più consapevole di come appaia) che la richiesta di una regolamentazione del diritto all’eutanasia non deriva da una pressione culturale per l’appropriazione individuale del diritto alla morte, ma per certi versi dal suo contrario, cioè da un senso sempre più diffuso di espropriazione del diritto alla vita e alla libertà nell’esperienza della malattia.
Ha poco senso citare il giuramento di Ippocrate contro l’eutanasia, in una situazione nella quale la “morte naturale” è ormai poco più di un simulacro ideologico o di una finzione normativa e la possibilità di surrogazione delle principali funzioni vitali, oltre a offrire straordinarie possibilità di cure ai malati, rende agli occhi di alcuni di loro la vita stessa un prodotto tecnologico insopportabilmente impersonale. È quanto scrisse quasi dieci anni fa Piero Welby al Presidente Napolitano, prima di congedarsi, grazie all’aiuto del dottor Riccio e con il sostegno dei radicali: «Ciò che mi è rimasto non è più vita; è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio … è lì, squadernato davanti a medici, assistenti, parenti».
Dall’altra parte, è evidente che con l’invecchiamento della popolazione aumenta la diffusione delle fragilità, delle disabilità e delle cronicità esposte al rischio di abbandono e dunque occorre scongiurare anche solo l’impressione che il diritto all’eutanasia individuale possa trasformarsi in un programma di eutanasia sociale. Ma è altrettanto evidente che la strada per difendere il diritto a essere assistiti e non abbandonati dei fragili e degli anziani non passa da un perdurante e burocratico oltraggio del diritto di morire bene, anziché male di malati che non vogliono più tollerare l’alienazione della propria vita e della propria morte.