L’idea era di offrire a un pezzo di Milano rimasto periferia un grande ospedale. Immaginare la qualità della vita urbana che cresce intorno ai servizi, alla salute pubblica. Così nacque l’ospedale San Paolo, nella prima metà degli anni ’60 alla Barona, sud-ovest della città. Una grande struttura, progettata per arrivare 650 a ricoverati, ma fino al doppio in caso di emergenza. Diventato clinica universitaria nel 1987, poi è stato unito in un’unica azienda sanitaria col San Carlo Borromeo, nell’ottica della riorganizzazione del sistema sanitario regionale promossa da Roberto Maroni nel 2015 e da qual momento, dimenticata la visione dell’ospedale come “anima urbana”, è iniziata un’incredibile girandola di progetti di presunta riorganizzazione.
Solo pochi mesi fa Letizia Moratti sembrava aver messo la parola fine alla lunga discussione sul futuro dei due istituti di riferimento per oltre 500mila milanesi, annunciando a sorpresa che l’idea dell’ulteriore passo verso l’unione – anche fisica – in un unico ospedale era definitivamente tramontata. Allineandosi, di fatto, con la posizione del Comune, orientato più a riqualificare i due storici ospedali milanesi che a dismetterli.
Ora, un nuovo cambio di rotta. Con la Dgr 5195/2021, la Regione imbocca una terza e inaspettata via, che vede nel San Carlo il presidio dell’alta specialità, mentre il San Paolo viene declassato a Ospedale di comunità (Odc), un polo di degenza a bassa intensità e cure intermedie, con circa 20/30 posti letto. Insomma la fine di una struttura che accoglie oltre 400 posti letto, con un pronto soccorso che ha gestito solo nel 2020 oltre 100mila accessi. E ciò nonostante la domanda di servizi socio-sanitari in quest’area sia tra le più elevate di Milano.
«Si tratta di una scelta senza apparente merito razionale», spiega Niccolò Carretta, consigliere regionale di Azione, che insieme al Pd ha depositato un ordine del giorno per bloccare il progetto. «Quando invece bisognerebbe investire risorse in una ristrutturazione e sul rilancio della struttura, nonché dell’efficacia clinica delle attività erogate al suo interno». Dovrebbe essere questa la preoccupazione, spiega Carretta, visto che «chi non ha una copertura di un’assicurazione privata o possibilità di accedere a servizi a pagamento, può aspettare anche un anno per una banalissima visita di controllo».
I soldi, a quanto pare, ci sarebbero. Nel 2016, la direzione strategica dell’Asst aveva ottenuto un finanziamento di 40 milioni di euro per riqualificare il San Paolo, e un analogo stanziamento di 48 milioni per il San Carlo. Ma alla Regione piaceva tanto l’idea di un polo unico, da realizzare ex-novo nell’area di Ronchetto sul Naviglio. Peccato che l’area prescelta in realtà non andasse tanto bene: era inquinata, da bonificare e troppo vicina ai Navigli per avere il via libera dalla tutela ambientale. Insomma, bisognava ricominciare tutto daccapo.
Il resto, è storia. Con l’arrivo del Covid-19, i problemi della Asst comune tra San Paolo e San Carlo sono esplosi. La lettera con cui il personale sanitario denunciava di dover fare scelte impossibili tra i pazienti nell’accesso alle cure ha fatto il giro dei media nazionali e internazionali, scrivendo una delle pagine più nere della gestione pandemica in Lombardia. E a tutti sembra il caso di rivedere l’intero sistema sanitario.
Non a tutti – però – nello stesso modo, vista la guerra a colpi di emendamenti (oltre 1.900) e ordini del giorno (più di 4mila) tra maggioranza e opposizione in Consiglio regionale. E in mezzo c’è, ancora, il destino del San Paolo.