La pandemia ci costringe a ripensare e a riorganizzare ogni cosa, e così il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Sono le ragioni per cui a Palazzo Chigi è stato chiamato Mario Draghi, che ha segnato una svolta significativa su entrambi i fronti: pianificazione economica e campagna di vaccinazione. Ma è inutile nascondersi che la portata delle sfide, e dei cambiamenti richiesti per affrontarle, giustificano ampiamente dubbi e preoccupazioni. A maggior ragione considerando il fatto che il miracoloso equilibrio politico-istituzionale che ha consentito la svolta sarà molto probabilmente modificato – il punto è quanto sarà modificato – dall’elezione del prossimo presidente della Repubblica, tra appena un paio di mesi.
Le grandi questioni attorno a cui ruota il dibattito sono fondamentalmente due: come l’Europa e il mondo dovranno riorganizzarsi per fronteggiare una pandemia che non pare intenzionata a togliere il disturbo da sola tanto presto; e come, dentro questo grande cambiamento, anzitutto all’interno dell’Unione europea, si collocherà l’Italia, con il suo gigantesco debito pubblico (ovviamente in via di espansione) e con tutte le sue storiche debolezze.
Da settimane i giornali sono pieni di ogni genere di allarme sulla mancanza delle risorse, persone e competenze necessarie, tanto a far rispettare le nuove restrizioni anti-Covid quanto a presentare e a realizzare in tempo utile i progetti che dovrebbero beneficiare dei fondi europei. Che si tratti di sindaci, presidenti di Regione o del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese (la quale finora ha forse abusato dell’immeritato vantaggio di avere come termine di paragone il suo indegno predecessore), l’impressione è che in troppi si affrettino a mettere le mani avanti, più impegnati nella ricerca di giustificazioni che di soluzioni.
L’esempio più emblematico mi sembra l’intervista che il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo, ha dato a Repubblica all’indomani del consiglio dei ministri che ha annunciato il super green pass. Intervista in cui ha dichiarato testualmente: «Non è pensabile chiedere da un giorno all’altro ai controllori del trasporto pubblico di verificare sistematicamente, oltre ai titoli di viaggio, anche il passaporto vaccinale».
E per quale ragione, di grazia, non sarebbe neanche pensabile? Per quale ragione sarebbe pensabile, pensato e praticato chiederlo a baristi e ristoratori, e non sarebbe nemmeno immaginabile chiederlo a chi di mestiere dovrebbe fare esattamente questo? Cosa impedisce di unire la verifica del green pass al normale controllo a campione che si è sempre fatto (si fa per dire) sui biglietti? La presa di posizione è tanto più preoccupante perché viene da uno degli esponenti del Pd che più si sono battuti contro la deriva populista del centrosinistra. Se questi sono i riformisti, figuriamoci gli altri.
Ma se i dirigenti del centrosinistra non se la sentono nemmeno di chiedere di verificare un certificato a chi dovrebbe far questo di lavoro, potrebbero almeno risparmiarci tanti discorsi su come intendono ridisegnare il nostro modello di sviluppo (qualunque cosa vogliano dire quando lo dicono), combattere le diseguaglianze e gli squilibri del capitalismo globale, rovesciare come un guanto i trattati dell’Unione europea e riscriverne la costituzione economica.
Possiamo firmare anche cento trattati del Quirinale, ottenere (sulla carta) mille miliardi di fondi europei, varare i decreti anti-Covid più avanzati del pianeta: se i condottieri che dovrebbero guidarci in questa difficile traversata non vogliono saperne di bagnarsi nemmeno la punta delle scarpe, forse è meglio metterci subito una pietra sopra.
In fin dei conti, si tratta di uno dei più antichi problemi della filosofia politica: chi controlla i controllori? Che si tratti di green pass, Pnrr, debito buono o debito cattivo, siamo sempre lì, anche nel pieno di una pandemia, e proprio per questo sarebbe ora di capire che siamo tutti sulla stessa barca. Anche se a volte somiglia più a un tram che si chiama desiderio di non fare un cazzo.
Poi però non ci venite a dire che è tempo di restituire la parola alla politica e di finirla con i commissariamenti. Perché là fuori il virus non guarda in faccia a nessuno e lavora ventiquattro ore su ventiquattro, festivi e prefestivi inclusi.