Oltre il 70% della popolazione dei Paesi sviluppati è vaccinata contro Covid-19. Le terze dosi del vaccino creano senz’altro un problema di carattere logistico, ma la situazione è radicalmente cambiata rispetto a un anno fa frai vaccinati e le persone che hanno avuto Covid-19 e pertanto si sono immunizzati naturalmente. Italia, Spagna e Portogallo, tradizionalmente non esempi di impeccabile amministrazione, mostrano risultati che si possono ottenere da un amalgama di cura di sé e di quella dei propri cari, con l’efficienza di una logistica pragmatica e la fiducia nella scienza e forse perfino nell’approccio dei governi: un piccolo patrimonio da valorizzare.
Ci si aspetterebbe, dunque, che quest’inverno non si riproducesse lo stesso dibattito dello scorso anno: quello fra chi, pure con argomenti e sfumature diverse, sostiene che si debba trovare il modo di convivere col virus (che è poi quanto hanno fatto, ciascuno a suo modo, i diversi Paesi) e chi, invece, crede che per uscire dalla pandemia l’unica strategia sia quella Covid Zero.
Quest’ultima è frutto, a essere gentili, di allucinazioni epistemologiche. Se ragionassimo (come dovremmo) in termini di trade off, benefici e costi, dovremmo ammettere che essa si è rivelata un fallimento e ha prodotto solo danni sociali ed economici, a fronte dell’illusione di benefici che sono meramente psicologici e di breve durata. Più precisamente, la strategia di impedire al virus di entrare in un Paese o di diffondere e puntare a Zero Covid è stata portata avanti come un dogma ideologico purtroppo non solo dalla Cina ma anche da due Paesi del Commonwealth, Australia e Nuova Zelanda, pure solitamente tutto fuorché permeabili alla influenza cinese, e da Singapore. La Corea del Sud ci ha fatto un pensiero all’inizio, ma forse memore dei danni subiti all’epoca della MERS, causata dal peggiore coronavirus a oggi conosciuto, ha subito lasciato perdere.
La Cina è un Paese nel quale il governo stabilisce dall’alto quello che la popolazione deve credere, ergo ciò che è vero. Singapore è una autocrazia meritocratica e, dopo aver abbracciato Covid Zero con determinazione, con altrettanta determinazione ha abbandonato questa strategia, rivedendo le proprie policy sulla base delle prove disponibili. Australia e Nuova Zelanda sono (erano?) liberal democrazie che però hanno esercitato un controllo senza precedenti sulla vita dei loro cittadini. Nel caso australiano l’antecedente ideologico è la rigida politica migratoria degli ultimi anni.
Se in Cina lo Stato non teme alcuna concorrenza, in fatto di propaganda e opacità, altrove Covid Zero è stata proposta e difesa da esperti o sedicenti tali che non hanno capito che i virus sono macchine biologiche, dove l’enfasi è su biologiche, e non cose simili a nanodroni. Quindi vanno incontro a dinamiche evolutive che rendono alcuni di loro (nel senso di specie) di particolare successo. In qualche modo siamo sempre nella sfera del whishful thinking e dell’autoinganno, per cui si applicano alla realtà e ai fatti aspettative che non sono modificate se i fatti le confutano, ma sono usate come modelli ideali entro i quali ingabbiare solo quegli elementi della complessità del mondo che validano i pregiudizi propri e di chi marcia nella stessa direzione.
Una interessante intervista con scienziati e medici cinesi specialisti di Covid-19, pubblicata dalla BBC il 15 novembre, riporta le loro preoccupazioni e perplessità, perché il virus è comunque endemico anche in quel Paese e non si hanno informazioni sull’efficacia protettiva dei vaccini o sulle strategie industriali in merito alla loro produzione. Uno di loro afferma che la strategia Zero Covid ha lo stesso senso che avrebbe «Zero Influenza».
Purtroppo, anche molti fra quanti propongono di accettare di convivere col virus non hanno ben chiaro cosa sia successo negli ultimi due anni. Il virus si è stabilito tra noi, come hanno fatto altri coronavirus prima, mentre alcuni non ci sono riusciti. Se diventerà come OCT43, un coronavirus che causa il comune raffreddore, lo si vedrà. Alcuni virologi dicono di avere elementi che avvallano tale ipotesi. Forse diventerà stagionale, dicono altri, come i virus dell’influenza. Diversamente dalla fisica, in biologia e medicina, non esistono leggi che consentano di fare previsioni attendibili su un qualunque fenomeno biologico. Ne dobbiamo prendere atto e smettere di accanirci contro la realtà perché non corrisponde ai nostri desideri. L’acqua bolle invariabilmente a un temperatura predicibile, ma gli effetti sulla virulenza e patogenicità delle mutazioni costanti di SARS-CoV-2 nessuno li può prevedere.
Le discussioni e le analisi di come affrontare la circolazione di SARS-CoV-2 fanno venire in mente quello che scriveva a fine anni Ottanta un gigante della genetica microbiologica, il Nobel Joshua Leberberg, il quale di fronte agli approcci infettivologici e politici contro la diffusione dell’HIV e la circolazione dei nuovi virus emergenti, affermava che «l’epidemiologia delle malattie infettive sembrava rimasta uno degli ultimi e più resistenti baluardi del creazionismo». Torna in mente anche quello che ha scritto in diversi suoi libri il biofisico e collaboratore di Fermi, Mario Ageno, secondo il quale quando fisici o ingegneri approcciano lo studio dei processi o meccanismi biologici, tendono a farlo con l’arroganza di chi crede che i biologi (siano essi genetisti, virologi, patologi, etc) non siano epistemologicamente più evoluti dei collezionisti di farfalle, ignorando che il mondo vivente è costitutivamente diverso da quello non vivente (particelle, pianeti, etc.) e ritenendo che si debba cominciare da zero.
Certe analisi rispondono ovviamente a due domande ben radicate nell’opinione pubblica: quella di certezza (ma nelle società umane l’acqua non bolle a 100 gradi) e quella di indignazione. Il caso del fisico divulgatore che ha redatto un report sugli effetti collaterali dei vaccini usando fonti notoriamente inaffidabili è esemplare. Le tesi del report sono state smontate su diversi giornali, in particolare da un eccellente articolo su l’Avvenire. Ma non ci sono state risposte né correzioni puntuali. In un contesto nel quale la scienza diventa materia da talk show, anche gli studi, accademici o meno, sono esempi di pensiero motivato (confortano una fetta di pubblico che desidera un certo risultato, dallo studio in questione) e servono per prolungare la polemica giornalistica con altri mezzi.
In questo contesto, i dati diventano uno strumento allucinogeno. Abbiamo ormai, purtroppo, consolidato nell’opinione pubblica l’idea che essi parlino non nel contesto di una elaborazione teorica, ma senza di essa.
Quello che dicono le teorie immunologiche ed epidemiologiche, e che va d’accordo sia con gli interessi personali sia con quelli della comunità, è che se vale la pena (e vale la pena) di continuare a vivere in società aperte, la principale e al momento unica risorsa sono i vaccini, che devono proteggere dai bambini agli anziani mirando a superare il 90% delle persone vaccinate completamente nel Paese. Ci sono cose che ancora non conosciamo di questo virus, ma invece sappiamo (sulla base di dati raccolti e studiati con criterio e di teorie non estemporanee che informano ricerca e industria farmaceutica) che i vaccini funzionano. Essi, inoltre, possono aiutare (ma questa è una speculazione) anche a favorire mutazioni del virus che riducano la sua trasmissibilità o la sua patogenicità.
Come abbiamo osservato in qualche altro intervento, la vicenda pandemica è anche un grande esperimento naturale, che permette di osservare come un’interferenza pandemica nell’andare corrente delle cose, provochi cambiamenti sociali, nella scienza, nell’economia, etc. Un esperimento non pianificato ma che può aiutare a disvelare cause fin qui sconosciute alla base di comportamenti sociali o dinamiche epidemiologiche. Per esempio, una serie di punti fermi dell’epistemologia della medicina sono stati, come ha mostrato il più citato metodologo clinico al mondo John Iannidis, quasi azzerati durante la pandemia.
Persone che hanno costruito una carriera predicando l’evidence based medicine (medicina basata sulle prove di efficacia), chiedono misure sanitarie senza portare uno straccio di prova (evidence). Come l’obbligo vaccinale, evocato come una sorta di punizione divina dei renitenti alla vaccinazione a prescindere da qualsiasi prova circa la sua efficacia. Ergo l’esperimento naturale mostra che quando vi sono motivazioni ideologiche, l’epistemologia cambia e si passa da quella che richiede randomized control trial o simili per decidere qualunque cosa, al vecchio intuitivo e sempre moralisticamente gratificante paternalismo.
Una celebre immagine nella quale Karl Popper voleva racchiudere il nucleo della sua filosofia è che dall’ameba ad Albert Einstein c’è solo un passo. Il salto sarebbe che mentre l’ameba impara, come specie, a sopravvivere attraverso l’eliminazione fisica degli esemplari che non sanno risolvere problemi di sopravvivenza, Einstein ha il vantaggio di eliminare solo le teorie che vengono falsificate dal confronto con prove controllate. In qualche maniera quel che sta accadendo non confuta, ma converge con l’impianto evoluzionista dell’epistemologia popperiana.
In un saggio geniale, intitolato “Epistemologia senza soggetto conoscente” e pubblicato nel 1968, Popper si rifaceva alle idee dell’immunologia del tempo per difendere la tesi che pensare di imparare qualcosa dalle esperienze per istruzione diretta – leggendo i fatti come dei fondi di caffè – è illusorio, perché ogni guadagno di conoscenza avviene per conferma di tentativi che funzionano ed eliminazione di quelli non avvantaggiati nella spiegazione di quei fatti. È quello che sta accadendo, e basta guardare a come evolve la vaccinologia di Covid-19, ma anche la gestione clinica dei pazienti. È vittima di qualche forma di cecità, chi pensa che sia meglio procedere in modi diversi da quelli che abbiamo capito che risolvono nei tempi necessari le minacce nel mondo libero, magari assumendo che il carisma personale o il moralismo o l’autoritarismo siano meglio della scienza e dello stato di diritto.