Leadership e dialogoCome risolvere la solitudine del manager

Ogni posizione di vertice richiede scelte isolate e fiducia nei collaboratori. Spesso, come ricorda l’artista contemporanea e business coach Anja Puntari, la cosa diventa faticosa. Il suo libro (pubblicato da Guerini e di cui proponiamo sotto un estratto) punta a migliorare l’esperienza aziendale attraverso la creatività

di Kelly Sikkema, da Unsplash

Agire sulla solitudine significa, almeno a primo acchito, agire sulle relazioni che circondano la persona. Come si può vivere in modo da costruire relazioni solide e forti, che facciano sentire le persone connesse con gli altri invece che distanti e separate? E come farlo – domanda essenziale ai fini di questo libro – al lavoro, nella dimensione professionale?

La provocazione della mia coachee è stata quella di chiedersi se esista uno stile di leadership talmente inclusivo da rimuovere la solitudine, proprio perché così effettivamente non si è soli. Il ragionamento non fa una piega. Da questa considerazione, il passo verso lo scioglimento delle tipiche piramidi organizzative e uno stile manageriale meno top down, è breve. Ci sono evidenti e consistenti segnali di cambiamento organizzativo che vanno in questa direzione in ogni parte del mondo e in quasi tutti i settori. Certo, magari i knowledge worker in banca, nella consulenza o nel settore farmaceutico sono più avanti rispetto ad altri, ma il trend è comunque in generale questo. Non c’è dubbio che le cosiddette flat organization e uno stile manageriale meno gerarchico, rappresentino ormai dei macro trend in crescita ovunque nel mondo.

La non verticalità porta però con sé sfide nuove: i processi sono spesso più lenti, il decision making prende molto più tempo. Non sempre una logica di pari è il modo più efficace e veloce di lavorare. Questa modalità richiede di avere un alto livello di fiducia nelle persone, aspetto a volte difficile da mantenere in team flessibili, che cambiano costantemente. Inoltre, crea delle complessità relazionali all’interno delle organizzazioni, poiché nel momento in cui le aree di responsabilità diventano meno nitide, le possibilità di interpretazioni fallaci o fraintendimenti aumentano.

Appiattire le piramidi organizzative è complicato, anche perché mantenere il senso di coesione è complesso soprattutto nell’ambito di team allargati, perché l’abilità di ragionare e soprattutto di percepire un senso di appartenenza è circoscritto a un numero limitato di individui. Nella mia esperienza, all’interno di team allargati, che superano i 14 individui, le relazioni sono semplicemente meno intense rispetto a quelle che si creano nei team più piccoli.

In alternativa, possiamo immaginare di mantenere il vecchio modello gerarchico piramidale e semplicemente adottare, in questa struttura, un nuovo stile di leadership, finalizzato a non far sentire più solo il leader. Ciò vorrebbe dire aumentare l’attenzione al dialogo, alla condivisione, al contatto con gli altri. Assumendo una prospettiva manageriale potrei forse chiamarla leadership inclusiva.

Per il manager significa mettersi a disposizione degli altri, attivare costantemente competenze come l’ascolto attivo, la comunicazione interpersonale e l’intelligenza emotiva per coinvolgere le persone in modo efficace.

Questo stile di leadership richiede lo sforzo faticosissimo di accettare che il modo di fare altrui è diverso dal proprio. Gli altri non sono delle marionette. Raramente le persone sono consapevoli del fatto che si tratta soprattutto di una fatica emotiva, che poco ha a che fare con la dimensione razionale. Innumerevoli volte parliamo di quelli che consideriamo fatti, quando in realtà siamo guidati dalle emozioni. Per altro, nella maggioranza dei casi non esiste un solo modo di fare le cose. La mia cucina e quella di mia suocera sono organizzate e ordinate diversamente, ma in ambedue le case si cena ogni sera. Anche se lei è una cuoca di grandissima maestria, faccio lo stesso molta fatica a vederla preparare il risotto allo zafferano, perché la sua interpretazione della ricetta lombarda è diversa dalla mia. La sua è ovviamente sbagliata, mentre la mia è quella giusta!

Sul lavoro sono innumerevoli le volte in cui il mio team mi ha portato compiti realizzati con modalità che non avrei mai adottato. La tentazione di «correggere» il loro lavoro è alta, spesso così tanto da non riuscire a trattenermi. Mettermi in modalità maieutica costa moltissima fatica… e tempo, che la maggior parte delle volte manca.

Leadership inclusiva vuol quindi dire, prima di tutto, gestire il proprio vissuto emotivo per cogliere l’altro, il diverso da sé, in maniera costruttiva. Questa fatica consente però di affrontare sfide sempre più complesse, che richiedono il contributo di competenze e saperi diversi.

Se da un lato il tema della solitudine del manager può essere risolto con uno stile di leadership inclusivo, dall’altro è importante segnalare un aspetto di grande rilievo: la solitudine può dare luogo anche a momenti piacevoli, mentre la vergogna, pur svolgendo un ruolo utile nel compattare i gruppi, non si declina mai in un sentito piacevole. La solitudine può essere vissuta in modo positivo, addirittura ricercata in certi momenti e può offrire grandi benefici. Ma perché questo accada, bisogna conoscerla meglio.

da “Conoscere la giusta distanza. Sfide di management in un mondo complesso”, di Anja Puntari, Guerini Next, 2021, pagine 224, euro 24

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