In questi giorni di muri e di vergogna al confine tra Polonia e Bielorussia, la stampa nostrana – in particolare quella cattolica e di sinistra – si riempie la bocca più che mai di un ritornello ormai famoso: «Stiamo innalzando muri contro i profughi che scappano dalle nostre guerre».
Un adagio che è entrato nel nostro patrimonio di proverbi, accanto a «Il turismo è il nostro petrolio». Ormai lo ripetiamo a pappagallo senza più neanche rifletterci. Ma se ci si riflette, alla luce della storia recente, è una bugia odiosa, sfacciata, abnorme, buona solo per pulirci la coscienza.
Quei profughi scappano per la maggior parte dal nostro disimpegno, che ipocritamente chiamiamo «pace». Non dalle nostre guerre.
E per ognuno che riesce a scappare, ce ne sono altri dieci che rimangono in balia della fame, della miseria e della prepotenza, sempre grazie alle nostre paci.
In Siria non siamo intervenuti, in Kurdistan non siamo intervenuti, in Afghanistan ci siamo ritirati, in Libia abbiamo lanciato quattro bombe e poi ce ne siamo andati. La macelleria della Bosnia durò finché durò l’indifferenza occidentale. In Kosovo i primi carri armati tedeschi con la croce di ferro furono accolti dalla popolazione con grida di esultanza.
Certo, c’è stato l’Iraq, un’invasione ingiusta e destabilizzante. Ma è stata una triste eccezione. Negli altri casi, a essere ingiusto e destabilizzante è stato proprio il «generoso disimpegno» dei nostri virtuosi eserciti.
Solo la Francia ha avuto il coraggio di spedire cinquemila soldati nel Sahel, con effetti tutt’altro che destabilizzanti sia per i civili, sia per i flussi di profughi, sia per i nostri interessi. Ed è fuori discussione che paesi come la Nigeria e l’Etiopia siano difficili da destabilizzare ancora di più rispetto alla situazione attuale: qualche reggimento europeo potrebbe solo migliorarla.
Eppure, niente è radicato nell’opinione pubblica occidentale quanto l’ostilità lacrimosa e tremebonda verso qualsiasi politica di potenza all’estero.
L’Italia continua a farsi bella del suo «Ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (come se gli scontri fra tribù libiche o le violenze dei talebani contro i civili inermi fossero «controversie internazionali»).
La Germania continua a battersi il petto per una guerra di ottant’anni fa voluta da persone che erano nate nell’800: anche basta, per favore.
La Gran Bretagna continua a demonizzare il suo passato coloniale, traendone un pretesto per isolarsi oggi, e dimenticando che in molte regioni il suo precipitoso ritiro ha fatto danni ben più gravi del suo arrivo (India-Pakistan, Israele-Palestina, eccetera).
Destra, sinistra e centro, europeisti e sovranisti, verdi e fossili hanno tutti una buona scusa per deprecare anche solo l’ipotesi che i militari possano fare qualcosa di diverso dai vaccini e dalle gare di atletica.
In qualsiasi partito, associazione o movimento questo è il Grande Tabù che non va toccato. «Serve solo all’industria delle armi», «Con quegli stessi soldi si potrebbe fare altro», «E allora l’Arabia Saudita», «Fatti dire dai tuoi nonni cos’è davvero la guerra», «Cristo dice di porgere l’altra guancia»: ce n’è per tutti i gusti.
Argomentazioni che hanno un tratto in comune: spostano il discorso dal piano politico al piano morale.
La politica, si sa, è regolata da alcune leggi meccaniche. Ad esempio, è irrazionale che qualcuno armato obbedisca a qualcuno disarmato, uno stato pacifico può sussistere solo finché detiene il monopolio della forza legittima, il diritto di qualcuno esiste solo finché a qualcun altro si può imporre un dovere corrispondente, e soprattutto non esistono i vuoti: se viene meno un’autorità ne subentra un’altra, che si chiami Russia, Turchia, talebani o signori della guerra, purché sia la più capace di imporsi e la più determinata a farlo.
La morale si muove su leggi completamente diverse, di stampo finalistico: si isola ogni singola azione per giudicare il singolo attore rispetto a parametri ideali di giustizia e ingiustizia o di bontà e cattiveria.
Il guadagno occasionale procurato a un soggetto sgradito (l’industria delle armi, che poi lucra altrettanto sulle lotte indisturbate tra fazioni locali), le risorse sottratte a un investimento considerato più morale (di solito la scuola: sì, quella di cui il pacifismo ha privato dopo vent’anni milioni di donne afghane), l’incoerenza (se sei amico dell’Arabia Saudita non sei nella posizione di dire nulla ad altre dittature o gruppi fondamentalisti), l’apparente insensibilità alla sofferenza (con l’esempio di una guerra, la seconda mondiale, che peraltro ha risparmiato sofferenze ben peggiori), l’apparente spregio della parola di Dio, rientrano in quel tipo di parametri.
Insomma, se qua e là sono esistiti alcuni illuminati tentativi di pacifismo che accettava e sfruttava le leggi della politica (Joseph Schumpeter?), la maggior parte delle volte i pacifisti mischiano purtroppo le mele con le pere, illudendosi che i valori morali finalistici possano trionfare a prescindere dai rapporti di forza meccanici. È questa illusione che ha trasformato l’Europa in un tremolante fortino preso d’assalto da milioni di disperati e ricattabile dai dittatori di ogni risma.
Sul piano morale, infatti, il comportamento perfetto per un individuo dalla coscienza pulita è non intervenire con l’esercito e poi accogliere tutti i profughi che il suo non-intervento ha generato.
Sul piano politico però, che considera l’effetto complessivo sulle società dalle quali i profughi provengono (e, ammettiamolo, anche su quelle dove i profughi giungono), questo atteggiamento risulta catastrofico. Gli eredi di Léon Blum, di Neville Chamberlain e di Ponzio Pilato hanno causato più danni che benefici.
Finora soltanto i francesi sembrano essersene resi conto. E proprio il loro totale isolamento nel reggere il peso delle operazioni nel Sahel è la ragione principale, insieme alla scarsa affidabilità dei partner locali, per cui dopo dieci anni anche loro stanno per ritirarsi.
Se i valori europei per noi contano davvero qualcosa, non possiamo continuare a difendere la sicurezza solo su Facebook, come fa la destra, o a difendere i diritti umani solo su TikTok, come fa la sinistra. Entrambi vanno difesi dal vivo dove ce n’è bisogno, anche al di fuori dei nostri confini.