In India vivono 1,38 miliardi di persone, e questo la rende già oggi il secondo stato più popoloso al mondo. Presto, però, potrebbe diventare il primo: un report delle Nazioni Unite ha previsto il sorpasso della Cina – l’attuale stato più popoloso con 1,40 miliardi di persone – per il 2027. Tra soli cinque anni. L’India è anche il terzo stato al mondo per emissioni di CO2 in atmosfera, è la democrazia più popolosa al mondo, il settimo stato per dimensioni e una delle economie che cresce più rapidamente in assoluto. Numeri del genere dovrebbero portare a enormi attenzioni verso il ruolo di Nuova Delhi nel combattere il cambiamento climatico. Eppure non è così.
L’India non sembra essere al centro del dibattito sulla crisi climatica né per i media né per gli stati e gli enti non-governativi che se ne occupano. Perché? Uno dei motivi sembra essere la seria mancanza di una propria rappresentanza sui tavoli internazionali: l’esempio più lampante è che non fa parte dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu, anche se ambisce a diventarlo. Il problema dell’India è quello di un paradosso che viene discusso ormai da tempo: avere molte carte in regola per essere una superpotenza ma, di fatto, non riuscire a diventarlo.
La mancanza di peso diplomatico dell’India è forse il primo dei motivi per cui la crisi climatica viene discussa con più frequenza e aspettative da Stati Uniti, Cina e Unione Europea. Ma questa mancanza viene a sua volta da un altro problema tipicamente indiano: la frammentazione e l’instabilità politica del suo territorio. La minoranza musulmana, per esempio, è spesso colpita da attacchi e umiliazioni da parte di nazionalisti hindu. Sono violenze su base etnica seguite da proteste e rivolte su larga scala. Alcuni territori periferici, come il Kashmir, sono la sede di sentimenti e movimenti separatisti che il governo di Nuova Delhi teme fortemente. Ne è una dimostrazione ciò che è accaduto lo scorso settembre nella città di Srinagar, dove dopo la morte del celebre politico separatista Syed Ali Shah Geelani, senza che fossero nate proteste, è stato inviato preventivamente l’esercito. Non sono, evidentemente, eventi che la comunità internazionale interpreta come segnali di stabilità.
L’India ha, come dicevamo poco fa, uno dei territori più vasti al mondo, e per di più si trova in una posizione strategica. Similmente all’Italia che si trova al centro del Mediterraneo, anche l’India è una penisola al centro di un tratto di mare dal peso strategico crescente, il cosiddetto Indo-pacifico. Eppure non riesce ancora a trovare un ruolo di primo piano nella politica internazionale. Questo anche perché l’India con molti dei Paesi del suo estero vicino, come Cina e Pakistan, ha rapporti molto tesi.
Nonostante i suoi molti problemi l’India avrà un ruolo crescente nella lotta al riscaldamento globale. Lo ha sottolineato di recente anche Andrew Light, delegato per il clima della Casa bianca ai tempi della presidenza di Barack Obama. E, di fatto, lo ha dimostrato la Cop26, il summit sul clima appena concluso a Glasgow. Proprio in Scozia il governo indiano ha fatto due passi che, sebbene in direzioni opposte, hanno rimesso l’India al centro dell’attenzione internazionale sul tema del clima. Il primo è stato l’annuncio di voler raggiungere la neutralità carbonica entro il 2070, diventando l’unico grande stato a voler migliorare i propri impegni al summit presieduto dal Regno Unito. Il secondo passo è stato quello di spingere, insieme alla Cina, per una modifica al ribasso dell’accordo finale. In una prima bozza dell’accordo finale si parlava di «eliminare gradualmente l’uso del carbone e dei finanziamenti per i combustibili fossili», ma nell’ultima bozza la parola «eliminare» è stata rimpiazzata con «ridurre». L’India è tra i maggiori utilizzatori di combustibili fossili al mondo, e in questo modo ha fatto pesare e prevalere i propri interessi.
Ci sono almeno altri due motivi per cui l’India sarà, nel bene o nel male, una protagonista della lotta ai cambiamenti climatici. Il primo è che non soltanto è tra i Paesi che emettono più inquinanti in atmosfera, ma è anche tra quelli che subisce di più le conseguenze di un clima che cambia. È l’ennesimo paradosso indiano: essere contemporaneamente tra chi il riscaldamento globale lo provoca e tra chi lo subisce di più. Eventi come l’aumento del livello del mare, lo scioglimento dei ghiacciai e la siccità colpiscono già molto duramente il territorio e la popolazione indiana. Ecco perché il governo indiano già oggi si trova ad avere due convenienze contrapposte: da una parte proteggere la crescita economica e dall’altra evitare che la crisi climatica si intensifichi per preservare il benessere e la stabilità della sua popolazione.
Il secondo motivo è che l’India sarà probabilmente l’ultimo blocco politico a dismettere il carbone, uno degli inquinanti più presenti e dannosi che vengono emessi in atmosfera. Non è una questione di volontà politica, ma di grado attuale di sviluppo economico e industriale. L’India è indietro rispetto alla Cina, ha iniziato dopo la sua ascesa economica, ed è per questo che prevede di dismettere il carbone dieci anni dopo Pechino e vent’anni dopo Stati Uniti e Unione Europea. D’altronde finora nessun Paese è riuscito a uscire dalla povertà senza un concomitante aumento delle emissioni. E l’India, appunto, ha tutto il comprensibile interesse a completare il processo di sviluppo sociale ed economico.
Questi dati vanno integrati mettendoli in prospettiva: l’India è, oggi, tra i Paesi che inquinano di più ma se consideriamo le emissioni dell’ultimo secolo, e non soltanto quelle degli ultimi anni, smette di essere tra i primi responsabili. E se consideriamo, anziché il dato assoluto, l’inquinamento pro capite l’India scivola oltre la centesima posizione tra i Paesi più inquinanti.