Per la mia generazione e anche per quella successiva la meritocrazia anglosassone è stata un punto di riferimento importante. Contro coloro che si aspettavano da una rivoluzione socialista una società di uguali, i riformisti di sinistra intendevano l’uguaglianza soprattutto come uguaglianza di opportunità, non di risorse.
Per attuarla chiedevano una riforma e un forte potenziamento del sistema dell’istruzione, perché in una società in cui la conoscenza ha un’importanza sempre maggiore una buona preparazione scolastica e universitaria è condizione necessaria per poter competere su un piano di parità, nonostante le differenze di classe sociale. Per questo si guardava alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti e ai loro sistemi di istruzione.
Subito dopo la seconda guerra mondiale i laburisti inglesi avevano fatto della scuola un punto centrale del loro programma. Abbiamo visto che anche la Costituzione italiana, all’articolo 34, fa proprie le loro stesse preoccupazioni e adotta il principio di uguaglianza delle opportunità (e menziona il merito).
Ancora molti anni dopo, nel 1996, Tony Blair sintetizzava così la «terza via», che avrebbe dovuto essere l’agenda del Partito laburista: «Chiedetemi quali sono le tre priorità per il governo e vi risponderò: istruzione, istruzione, istruzione». La ragione era evidente: «Crediamo che si debba migliorare la propria condizione con il talento, non sfruttando nascita o privilegi».
Negli Stati Uniti i presidenti democratici Kennedy, Clinton e Obama dicevano le stesse cose. Bill Clinton ad esempio, come abbiamo visto, amava sottolineare l’importanza dell’istruzione e il suo stretto legame con l’occupazione con uno slogan: «What you can earn depends on what you can learn». Nell’era della competizione globale i lavoratori senza un titolo universitario avranno difficoltà a trovare un buon lavoro con un salario decente.
Dunque «crediamo che tutti dovrebbero essere messi in grado di andare all’università, perché quel che si può guadagnare dipende da quello che si può imparare». Abbiamo anche visto che Barack Obama diceva le stesse cose qualche anno dopo, ma in toni più drammatici perché la globalizzazione stava procedendo rapidamente. Non è secondario che su questo punto il consenso negli Stati Uniti fosse tanto ampio che anche i presidenti repubblicani hanno detto più o meno le stesse cose sull’istruzione, il merito e l’uguaglianza.
Come spesso succede, non tutte le promesse sono state mantenute. Negli Stati Uniti si era pensato di rendere le università accessibili a tutti concedendo prestiti finanziati in prevalenza dal governo federale, senza garanzie e a tassi minimi, per coprire le tasse di iscrizione, da restituire gradualmente quando gli studenti, laureati, avessero cominciato a guadagnare a sufficienza per poterlo fare.
La Gran Bretagna di Tony Blair ha seguito l’esempio e anche da noi in teoria esistono i prestiti d’onore, che però non hanno avuto molto successo. Purtroppo oggi il debito contratto dagli studenti negli Stati Uniti ammonta a più di un trilione e mezzo di dollari. Di questi si stima che almeno un terzo non sarà mai restituito.
Le cause sono molte: c’è inflazione di laureati, gli stipendi sono aumentati molto meno del costo delle case, del servizio sanitario e soprattutto delle tasse universitarie. Sono aumentati infatti anche i costi di tutto il sistema educativo, mentre sono diminuite le sovvenzioni statali.
Come abbiamo visto, dopo anni di dibattiti, l’amministrazione Biden sta considerando di cancellare in tutto o in parte questi debiti, sollevando difficili problemi di equità. (Ad esempio, è giusto cancellare i debiti degli studenti e non quelli delle fasce più povere della popolazione che non possono nemmeno aspirare a iscriversi al college?).
Qualcuno sostiene che tutto il sistema dell’istruzione dovrebbe diventare gratuito – un cambiamento epocale. Al tempo stesso, mentre nel 1979 i laureati negli Stati Uniti guadagnavano circa il 40% in più dei diplomati delle scuole superiori, negli anni Duemila la differenza è salita all’80%. Soprattutto, la laurea è diventata un’assicurazione contro la disoccupazione.
Questo è solo un esempio degli evidenti problemi di giustizia sociale che si pongono proprio là dove il programma meritocratico sembrava più promettente. È giusto naturalmente che la discussione politica su questi temi sia accesa, ma negli ultimi tempi si sono levate diverse voci a sostenere che i problemi non possono più essere affrontati uno a uno ed è l’intero programma meritocratico che dev’essere rimesso in discussione dalle fondamenta.
Per gli italiani della mia generazione sentir affermare oggi che «il merito è un imbroglio» e «la meritocrazia è tossica» è spiacevole ma non del tutto sorprendente.
Noi abbiamo già sentito la critica antimeritocratica che nel ’68 chiedeva il «sei politico». In quegli anni, il sogno americano non era molto popolare da noi e il rifiuto della meritocrazia arrivava fino a respingere l’idea che si potesse competere per ottenere qualunque cosa – dalle posizioni sociali ai posti in graduatoria nei concorsi di qualunque tipo, ai voti a scuola.
L’abitudine di dare i voti, come si era sempre fatto, era bollata come «selezione meritocratica». Di qui la richiesta del «sei politico» a scuola e del «diciotto politico» all’università – cioè il rifiuto di ogni valutazione dei risultati raggiunti nella trasmissione delle conoscenze.
Non mi sembra che fosse molto diffusa la consapevolezza delle conseguenze di queste premesse. In particolare, non ci si rendeva conto che l’impossibilità di accertare le competenze portava di necessità a rendere inapplicabile il principio delle carriere aperte ai talenti. Forse è anche per questo che le pratiche tipiche dell’ancien régime nell’assegnazione dei posti e delle posizioni sociali sono durate da noi molto più a lungo che altrove.
Dal ’68 ad oggi la mia generazione ha avuto tutto il tempo di riflettere sull’argomento e in particolare su quello che si richiede a una critica della meritocrazia, al di là degli slogan più o meno ad effetto, perché sia convincente e non porti a conseguenze paradossali e non volute.
da “Il complotto contro il merito”, di Marco Santambrogio, Laterza, 2021, pagine 232, euro 18