È sempre stato facile, anche troppo, prendersela con il famigerato 0,1%. La classe dei supermiliardari americani, che detiene la stessa quantità di ricchezza del 90% della restante popolazione, gode di effettivi privilegi e prospera sulle rovine degli altri (almeno secondo Bernie Sanders). Il numero risicato della percentuale rappresenta il simbolo di una disuguaglianza eclatante e oltraggiosa.
Tuttavia le analisi hanno a lungo trascurato gli effetti e l’impatto provocato da altro gruppo: quello del 9,9%. Ricchi ma non ricchissimi (vengono subito dopo il famigerato 0,1%) compongono una upper-middle class che contribuisce, a modo suo, alla disuguaglianza negli Stati Uniti. È la tesi del filosofo e scrittore americano Matthew Stewart, espressa nel suo ultimo libro: “The 9.9 percent: The New Aristocracy That Is Entrenching Inequality and Warping Our Culture”.
Non è una classe compatta, in realtà, piuttosto un insieme di individui, accomunati da uno stile di vita simile e un’ideologia comune. «Il lato statistico è molto impreciso», come spiega Stewart in questa interessante intervista a Vox. «Nel 9,9% non rientra in automatico chi possiede una specifica quantità di ricchezza. Ma chi condivide una particolare cultura», con idee chiare su famiglia, questioni identitarie di genere e di razza. E soprattutto sul concetto di carriera ben riuscita, «che è professionale e manageriale».
Un rapido ritratto può rendere meglio l’idea. Il 9,9% ha un rapporto totale con il lavoro. Passano in ufficio un numero di ore spropositato e il tempo libero viene piegato, con cene e incontri, alle necessità della carriera. Le loro case sono in quartieri esclusivi e a provvedere ai figli c’è un esercito di tate e signore delle pulizie. Il fitness è un’ossessione, mentre il peso politico viene esercitato appoggiando tutte le possibili battaglie identitarie – nel tentativo, forse inconscio, di non fare i conti con le ingiustizie reali del sistema in cui si trovano avvantaggiati.
La loro ideologia, da cui discende tutto questo, è la meritocrazia – o meglio, secondo Stewart, una sua versione distorta. Sono così bravi, però, che hanno contagiato anche il restante 90%, rendendo dominante il loro stile di vita. Anzi, facendo credere a tutti che sia l’unico degno di essere perseguito.
Al primo posto delle loro preoccupazioni c’è l’istruzione dei figli, per la quale dimostrano una cura maniacale. Cercano le migliori opportunità fin dalla culla e costruiscono una strada ideale (anche se irta di ostacoli) che permetterà di farli arrivare nelle migliori università. Il sistema meritocratico è competitivo, lo sanno. Ogni dettaglio può fare la differenza: dalla scelta degli snack alla quella delle tate. Le quali «una volta servivano solo a dar da mangiare ai figli e a badare che non si facessero male. Adesso sono uno strumento fondamentale per ottimizzare la loro crescita. La nuova tata deve avere un’istruzione superiore, o meglio ancora essere una laurea in psicologia infantile. Deve saper organizzare e garantire tutte le migliori esperienze possibili per la formazione del bambino», continua nell’intervista.
Un altro carattere distintivo è, come detto sopra, la grande quantità di ore passate al lavoro. «Lo fanno perché sanno, almeno a livello intuitivo, che non è davvero il merito la vera ragione delle loro rendite. Per questo devono distinguersi nella competizione. Il modo migliore per farlo (in assenza di fantasia) è dimostrare un’enorme volontà di sacrificio e obbedienza». Sanno che mantenere le posizioni ottenute è fondamentale, così come è importante trasmetterle alle nuove generazioni. «È un’attitudine folle che dimostra con chiarezza che questa meritocrazia è fuori controllo».
Quello che intende lo spiega subito dopo. «Le disuguaglianze del sistema economico americano discendono da alcune storture profonde, come il generale calo della competizione e la crescita senza resistenza degli oligopoli». Una volta instaurate, vengono però bloccate ed esasperate da alcuni fattori più superficiali. Tra questi, appunto, l’attività del 9,9%. Per loro la meritocrazia non rappresenta la possibilità di mantenere il controllo delle responsabilità di detiene posizioni di comando, «ma la giustificazione ex post della loro stessa posizione».
Il risultato? Una serie di problemi. Prima di tutto per loro stessi, che si obbligano a una vita infelice, ansiosa e sempre insoddisfatta. Poi, e in misura maggiore, anche per il resto della società. Con la loro ossessione «impediscono una più equa ripartizione delle opportunità di carriera». Non solo, monopolizzano anche le politiche per rimediare alle loro stesse azioni.
Questo significa che pur di mantenere intatto il sistema, scelgono di compensare gli squilibri nell’accesso alle carriere promuovendo piccole aperture, ma solo quelle limitate alla rappresentazione delle minoranze e dei generi. È la mentalità delle quote, che asseconda le rivendicazioni identitarie. Un’operazione di giustizia sociale dal valore cosmetico, cioè «una cosa meravigliosa che non risolve pressoché nulla». In una società composta da servi e signori, si istituisce così «una lotteria annuale per cui ogni cento servi uno (forse) diventa un signore».
Come è evidente, non si crea una società giusta ma soltanto «una società perversa», dove le stesse dinamiche vengono perpetuate all’infinito tra le stesse persone.
Il problema è che questa mentalità è diventata egemonia: anche il restante 90% della popolazione, in misura e gradi diversi, è convinto delle stesse cose del 9,9%. Non hanno mezzi per sostenere la competizione, ma la accettano. Condividono l’idea di ottimizzare i figli, massimizzando le loro potenzialità. E il loro obiettivo, anche se irraggiungibile, è lo stesso e appare come l’unico desiderabile: una vita upper-middle class.
Se non si fa di tutto per arrivarci, concludono, l’unica alternativa possibile è «Starbucks per tutta la vita».
Rimuovere questa stortura è difficile. «Dire di prendere questo 9,9%, metterlo su una barca e mandarlo in mare è semplice, e farebbe anche vendere più copie», scherza Stewart. Ma la verità è che, cambiando atteggiamento, possono avere un ruolo positivo per la società e l’economia americana. «Devono tornare ai veri valori originari dell’upper-middle class americana», cioè all’idea che la meritocrazia, «anziché indicare il concetto secondo cui ognuno guadagna cioè che merita, significa che chi ha posizioni di potere deve essere responsabile [nel senso di “accountable”] secondo standard razionali di controllo pubblico». In questo senso, «in ciò che chiamiamo “meritocrazia” vengono convogliati valori profondi: la responsabilità pubblica, l’uguaglianza di ciascuno davanti alla legge, la trasparenza nelle decisioni, la professionalità. Sono tutte cose buone e importanti. Il 9.9% può contribuire a ritrovarle». Per il bene di tutti.