È di grandissima attualità – si pensi alla vicenda Open e a quanto discusso, tra le altre sedi, anche alla Leopolda – il tema di quanto possano essere invasivi i sequestri dei dispositivi informatici (di indagati e non).
Senza voler ovviamente entrare nel merito delle più recenti vicende di cronaca giudiziaria, merita di essere segnalata – questa volta per la apprezzabile attenzione dedicata al rispetto dei diritti degli indagati – una recente circolare della Procura generale di Trento indirizzata al procuratore generale presso la suprema Corte di Cassazione nonché a tutti i procuratori generali presso le varie Corti di appello.
Nel documento, dopo aver evidenziato l’«eccezionale rilevanza e delicatezza della questione», si toccano diversi aspetti che ricoprono un ruolo centrale nell’applicazione e nell’esecuzione dei sequestri sui dispositivi informatici: dalla possibilità stessa di sottoporli a sequestro alla possibilità di eseguire le cosiddette copie forensi; dalle modalità di estrazione alla procedura di selezione dei dati da considerare rilevanti.
Non occorre essere giuristi per comprendere la portata devastante che tale mezzo di ricerca della prova può avere, oltre che sul procedimento, sulla stessa vita dell’indagato (o, più in generale, di chi subisce il provvedimento di sequestro).
A maggior ragione – e in ciò si coglie l’importanza della circolare – in considerazione del fatto che, al giorno d’oggi, i cellulari (o, più in generale, i dispositivi informatici) che quotidianamente utilizziamo non sono più solo dei semplici cellulari, ma delle vere e proprie “scatole nere” della nostra vita (citazione presa in prestito dal noto film “Perfetti sconosciuti”). Scatole nere che contengono una mole sconfinata di informazioni personali: il registro delle telefonate effettuate, la corrispondenza e-mail, la cronologia del browser, le foto presenti nel proprio cloud, i dati dell’home banking e così via.
Ebbene, concentrandoci sull’ipotesi in cui a essere oggetto di sequestro sia il dispositivo informatico, non in quanto tale, bensì quale “contenitore” delle comunicazioni che la Procura vuole acquisire a fini di prova, è pacifico che tale acquisizione sia di per sé legittima, a condizione che il sequestro abbia carattere temporaneo e che si proceda alla immediata restituzione dei dispositivi dopo che siano state eseguite le cosiddette copie forensi.
Ciò premesso, la Procura di Trento si è soffermata su un primo, decisivo, aspetto rappresentato dalle modalità di analisi dei dati riprodotti su tali copie.
Alla luce del principio di proporzionalità – si legge nel documento – il sequestro deve essere «rigorosamente mantenuto sui soli dati della copia forense rilevanti ai fini delle indagini, in quanto il sequestro probatorio è consentito solo per le cose pertinenti al reato necessarie per l’accertamento dei fatti, con conseguente obbligo di estrazione dei soli dati d’interesse e restituzione della copia integrale».
Qualora, infatti, si procedesse (in violazione del principio appena richiamato) a un riversamento agli atti del procedimento della copia forense “nella sua interezza” – comprendente, cioè, anche chat o messaggi con contenuto irrilevante per il processo – si realizzerebbe «un’inammissibile e illecita diffusione di dati che attengono alla sfera personale, intima e inviolabile di ogni individuo che non è assolutamente consentita, perché comporta, inevitabilmente, la possibilità di divulgazione di fatti lesivi dell’onorabilità e della reputazione della persona e di dati penalmente irrilevanti che possono, però, risultare devastanti per la vita dei soggetti coinvolti (anche se estranei al procedimento)».
Nel provvedimento non si manca di sottolineare come tutto ciò, qualora riguardi l’attività di operatori economici, potrebbe portare all’ulteriore conseguenza di «rendere conoscibili know how o strategie riservate d’impresa che possono anche alterare l’ordinario andamento del mercato con grave danno per l’economia nazionale o di un determinato territorio» nonché, in generale, «la conoscibilità e tracciabilità di orientamenti politici, tendenze sessuali, convincimenti religiosi, rapporti sentimentali, dati sanitari e altri dati sensibili non solo della persona sottoposta a indagini, ma anche di soggetti del tutto estranei e persino di minorenni».
Non è un caso che, nel ribadire tale fondamentale principio (di civiltà, prima ancora che processuale), la Procura generale di Trento abbia citato proprio la recente sentenza della Corte di Cassazione nella vicenda Open, nella quale si è ribadito che il pubblico ministero può trattenere la copia integrale di ciò che è stato sequestrato solo per il tempo strettamente necessario al fine di selezionare, tra la molteplicità delle informazioni in essa contenute, quelle che davvero assolvono alla funzione probatoria sottesa al sequestro.
Ancora – a conferma della necessità di tutelare la privacy di tutti i soggetti coinvolti dalla possibile diffusione di dati e informazioni irrilevanti – nel provvedimento si raccomanda di provvedere alla immediata restituzione anche delle ulteriori copie che eventualmente siano state effettuate dalla polizia. Non può essere consentito, infatti, che dati privi di rilevanza possano rimanere, a tempo indeterminato, nella disponibilità, in qualsiasi forma, della polizia giudiziaria, perché ciò comporterebbe di fatto la creazione di veri e propri «archivi di massa paralleli» distinti da quelli ufficiali istituiti presso il Ministero dell’Interno; archivi che – si evidenzia – conterrebbero «dati personalissimi anche di soggetti del tutto estranei a una qualsiasi indagine penale dai quali risultano anche contatti, tendenze sessuali, opinioni politiche, credo religioso, stato di salute, rapporti sentimentali e di amicizia, segreti industriali, segreti professionali o altri dati sensibili o che attengono, comunque, alla sfera più intima della persona, al suo patrimonio o all’attività d’impresa e la cui riservatezza è tutelata anche a livello costituzionale e sovranazionale».
Altro interessante tema toccato dalla Procura generale di Trento attiene alle modalità operative attraverso cui si potrà andare ad analizzare il materiale sequestrato. Capita spesso, infatti, che la polizia venga incaricata, genericamente, di una non meglio precisata “analisi” dei dati – senza che venga prima definito il perimetro all’interno del quale effettuare la selezione – con conseguente attribuzione alla stessa di un vero «mandato esplorativo in bianco dell’intera massa dei dati».
Anche tale prassi non può più essere tollerata, in quanto non considera che il sequestro può avere a oggetto soltanto le cose “necessarie” per l’accertamento dei fatti e che un sequestro che sia asimmetrico rispetto alla notizia di reato per cui si procede finirebbe per assumere una (non consentita) “funzione esplorativa”.
Appare, dunque, indispensabile – si legge nella circolare – mantenere l’attività di selezione dei dati nel perimetro della legge, il che deve avvenire precisando espressamente che dovranno essere selezionati esclusivamente i dati rilevanti per l’accertamento del reato per il quale si procede. In altri termini, niente più “pesca a strascico”, ma ricerche mirate.
In un’epoca – qual è quella in cui viviamo – in cui non è affatto raro assistere a provvedimenti di sequestro poi annullati dalla Corte di Cassazione, non si può che guardare alla circolare con estremo favore, soprattutto per aver ricordato (ed è apprezzabile che a farlo sia stato un procuratore) quanto devastanti possano essere, per la vita dei soggetti coinvolti, le illecite intrusioni nella sfera intima e personale.