Subito dopo la presa del potere, il governo bolscevico adottò la strategia di tentare di sfruttare il nazionalismo per preservare l’impero piuttosto che farlo a pezzi, garantendo a ciascun gruppo etnico auto-identificatosi come tale una forma di autonomia che variava dal soviet di un villaggio nazionale alla base della piramide fino a una repubblica nazionale al vertice.
Tra la nazionalizzazione e una certa distorta idea di giustizia, l’autonomia ebraica divenne collegata all’agricoltura; gli ebrei, a cui non era stato permesso di possedere della terra nella Russia zarista, avrebbero, ora, lavorato duramente nelle fattorie collettive. Aiutati finanziariamente dalle comuni ebraiche americane, decine di questi insediamenti apparvero in Crimea e nel sud dell’Ucraina durante il primo decennio del dominio sovietico, creando un enorme risentimento tra i contadini locali assediati.
Un alto funzionario del partito ucraino avvisò il Politburo in una lettera del 1926: «Innumerevoli tentativi di creare delle condizioni eccezionalmente favorevoli per gli insediamenti agricoli ebraici, a scapito degli interessi della vasta massa degli agricoltori sovietici, hanno suscitato da parte di quest’ultimi un forte malumore antiebraico».
Contemporaneamente, mentre il regime sovietico eliminava l’impresa privata, grande o piccola che fosse, un numero crescente di ebrei perdeva il proprio sostentamento. Uno studio condotto sul territorio che un tempo era la Zona di Residenza ebraica confermava che «le condizioni di vita delle vaste masse ebraiche non soltanto non sono migliorate ma, in certi casi, sono perfino peggiorate». Tra il 30% e il 40% degli ebrei in Ucraina, Bielorussia e Russia occidentale non avevano alcuna fonte di reddito.
Il governo continuò a insistere che gli ebrei ora dovevano vivere dei prodotti della terra. Nel 1926, Mikhail Kalinin, il capo dello Stato sovietico, faceva risuonare una nota minacciosa nel suo discorso alla conferenza del Comitato per l’insediamento degli ebrei lavoratori della terra (OZET):
Il popolo ebraico affronta una sfida importante: la conservazione della sua nazionalità. Per realizzare ciò, una parte significativa della popolazione deve essere trasformata in una popolazione agricola, compattamente insediata, di almeno diverse centinaia di migliaia di persone. Soltanto se queste condizioni sono soddisfatte le masse ebraiche possono avere una qualche speranza di sopravvivenza della loro nazione.
Ciò che apparentemente aveva in mente era una regione sottopopolata al confine della contesa Manciuria. L’anno seguente un gruppo di agronomi passò l’estate nella regione, delimitata dai fiumi Bira e Bidžan, studiando le prospettive dei colonizzatori. Redassero una relazione di ottanta pagine che suonava come una litania delle difficoltà che i pionieri ebrei avrebbero affrontato. In effetti sembra come un elenco di motivazioni contro l’idea in sé.
Prima di tutto c’era il suolo: montagne che erano, se non particolarmente alte, eccessivamente ripide e caratterizzate da formazioni rocciose che si incontravano ad angoli così vivi da non potere essere attraversate neppure a cavallo. La valle era in gran parte una palude.
Poi c’era il clima. Gli inverni, che iniziavano in ottobre e duravano fino ad aprile, erano rigidi; le estati portavano acquazzoni torrenziali intervallati da giorni di caldo torrido.
E poi c’era la sventura che legittimava il paragrafo più eloquente della relazione:
Vorremmo, in particolare, sottolineare l’importanza degli insetti ematofagi: l’enorme quantità di tafani, di zanzare e di moscerini che, nel corso dei due mesi estivi, causano un’estrema sofferenza al bestiame e agli uomini. Gli insetti ematofagi hanno effetti sull’agricoltura diminuendo la produttività degli animali in estate e creando ostacoli insormontabili nell’esecuzione del lavoro che coinvolge i cavalli alla luce del giorno. Per combattere gli insetti ematofagi, la popolazione locale utilizza il fumo e degli unguenti dall’odore pungente applicati al bestiame. Le persone indossano delle zanzariere e dei copricapo ma, in linea generale, sono abituati alla iattura che sono gli insetti.
E infine c’era la gente del luogo. Molti di loro erano cosacchi inviati là per un decreto dello zar negli anni 1860 per aiutare a fortificare il confine. Erano arrivati decenni prima che la ferrovia si estendesse così lontano, e avevano sopportato difficoltà indicibili prima di riuscire a domare la terra quanto bastava per viverci. L’area ospitava anche una piccola popolazione di coreani-russi, chiaramente cittadini di seconda classe se paragonati ai cosacchi (tra le altre cose, i decreti dello zar concedevano alle famiglie coreane solo metà della terra concessa a quelle cosacche). A complicare ulteriormente le cose bande di predoni di etnia cinese, conosciuti come gli honghutzu, letteralmente quelli dalla barba rossa, terrorizzavano i locali, in particolare i coreani, che coltivavano il papavero da oppio, la valuta locale preferita.
La relazione terminava con cinque pagine di conclusioni, soprattutto avvertimenti che il progetto di insediamento ebraico sarebbe stato estremamente difficile. Portare le persone là sarebbe stato arduo: c’era la ferrovia, ma le infrastrutture di supporto erano in rovina. Fare arrivare il bestiame sarebbe stato ancora più difficile e più costoso. La costruzione di alloggi doveva essere realizzata velocemente, il clima non permetteva più di un varco di due mesi, purché i pionieri arrivassero in giugno, ma la costruzione sarebbe stata difficile dal momento che gran parte della regione era stata deforestata dall’uomo e dagli incendi. Questo era anche uno dei motivi per cui i cosacchi locali erano inclini a uno stile di vita nomade: la legna da ardere era scarsa. Il progetto agricolo, in altre parole, appariva irrealistico e gli esperti, tutti agronomi, suggerirono garbatamente che i pionieri prendessero in considerazione di seguire la strada dell’industria. Era necessario un anno intero di intensi preparativi, compresa la costruzione di strade, di edifici residenziali e di sistemi di miglioramento prima che arrivassero i pionieri. Nessun pioniere doveva progettare di venire prima del 1929, e non più di un migliaio di famiglie nel primo anno e, in seguito, un paio di migliaia di famiglie l’anno.
La relazione menzionava anche che la popolazione locale era in stato di ansia a causa della progettata invasione ebraica.
Il governo sovietico ignorò praticamente tutte le raccomandazioni del comitato e decise di sistemare immediatamente la regione, puntando a spostare un milione di persone in quell’area in dieci anni.
Il nome Birobidžan, derivato dai fiumi Bira e Bidžan, sarebbe arrivato in seguito. Per il momento c’era una stazione ferroviaria fatiscente chiamata Tikhonkaya, «Un posticino tranquillo», che era un modo educato di dire «dimenticato da Dio».
Il primo carico di pionieri arrivò, via ferrovia, nell’aprile del 1928; entro alcune settimane 504 famiglie e 150 pionieri singoli erano arrivati, raddoppiando all’incirca la popolazione di Tikhonkaya che, all’epoca, vantava 237 case, una sola scuola elementare e un negozio. Non c’era nient’altro: non un ufficio postale, non un servizio telefonico, non strade asfaltate, e nemmeno marciapiedi se non per alcune assi di legno che galleggiavano nel fango.
da “Dove gli ebrei non ci sono. La storia triste e assurda di Birobidžan, la regione autonoma ebraica nella Russia di Stalin”, di Masha Gessen, Giuntina editore, 2021, 224 pagine, euro 18