Una strage senza fine. Su 263 omicidi volontari registrati dall’1 gennaio al 21 novembre 2021 ben 109 sono stati femminicidi, di cui 93 consumati in ambito familiare/affettivo e 63 commessi da partner o ex partner.
Un raffronto con lo stesso periodo dell’anno scorso mostra che le vittime di genere femminile sono passate da 101 a 109 con un incremento dell’8%. Mentre quelle uccise in contesto domestico e per mano del partner o dell’ex sono state rispettivamente 93 (+7%) e 63 (+7%) rispetto alle 87 e 53 assassinate nel precedente arco temporale di riferimento. Infine, nei soli ultimi giorni 15 – 21 novembre su 11 assassinii registrati 6 hanno avuto come vittime donne, di cui 3 uccise da partner o ex.
È questo l’agghiacciante quadro che emerge dall’ultimo report aggiornato su omicidi volontari e violenza di genere che, curato dal Servizio Analisi criminale della Direzione centrale della Polizia, è stato diffuso lunedì a pochi giorni dal 25 novembre. Data in cui, come noto, si celebra quella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne che fu istituita il 17 dicembre 1999 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Insomma, a dispetto delle specifiche normative in materia di violenza di genere, che dalla 66 del 15 febbraio 1996 alla 113 (o Codice Rosso) del 14 ottobre 2020 hanno visto il legislatore intervenire al riguardo sette volte, una donna è ancora uccisa quasi ogni tre giorni in Italia e lo è per mano maschile. Segnale allarmante, che mette in luce come sia necessaria una piena implementazione delle norme e in particolare di un trattato internazionale come la Convenzione d’Istanbul, approvata nel 2011 dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa e ratificata dall’Italia nel 2013.
A rilevarlo apertamente le relatrici e i relatori del convegno “La Convenzione di Istanbul dieci anni dopo”, che si è tenuto lunedì scorso a Roma presso il Palazzo dei Gruppi parlamentari della Camera su organizzazione dell’Intergruppo per le Donne, i Diritti e le Pari Opportunità.
Nel ricordare come il trattato impegni i Paesi che l’hanno ratificato a prevenire la violenza di genere, a proteggere le donne che ne sono vittime e a perseguirne gli autori (ossia le famose tre P alla base della Convenzione), si è coralmente osservato che in Italia si è posta finora attenzione soprattutto all’aspetto penale con conseguenze ben note.
A Linkiesta la senatrice del Partito democratico Valeria Valente, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio – che oggi pomeriggio presenterà al Senato la specifica relazione sui casi italiani negli anni 2017-2018 – ne ha anticipato i tre punti principali dicendo: «Il 65% delle donne non aveva mai fatto parola dei tentativi di violenza nemmeno come un’amica e solo il 15% aveva denunciato, mentre il 34% degli uomini responsabili si è ammazzato».
Poi ha aggiunto: «Bisogna registrare ancora troppe sentenze non eccessivamente rigorose, pene ancora troppo leggere, ancora una valutazione eccessiva delle attenuanti generiche. Insomma, una risposta giudiziaria che qualche volta è all’altezza ma tante volte rischia di non esserlo. Manca soprattutto un’adeguata consapevolezza nell’immaginario collettivo di che cos’è la violenza maschile contro le donne. Maggioritaria, invece, la tendenza a derubricare la valutazione della violenza come raptus, gesto emotivo, rabbia del momento e a colpevolizzare indirettamente le donne o quanto meno ritenerle come soggetti che non si sono opposti fino in fondo alla violenza, giustificando così in parte gli uomini».
Il primo pilastro della Convenzione è quello della prevenzione. Eppure, in Italia «si è sempre puntato principalmente sulla punizione pensando che la pena severa possa essere un deterrente per fermare questa strage. Invece non si è mai puntato seriamente sulla rieducazione e riabilitazione degli autori delle violenze». Non ha dubbi al riguardo Emanuela De Vito, sopravvissuta a un tentato femminicidio da parte dell’ex fidanzato, che nel 2005 l’aveva ridotta in fin di vita con quattro coltellate.
L’avvocata reggina spiega al nostro giornale come sia «necessario sostenere i centri antiviolenza per il dopo denuncia perché le donne, trascorso il periodo di protezione presso tali strutture, si ritrovano poi sole. Almeno io posso dire di aver avuto alle spalle una famiglia che mi ha sempre aiutata».
Ma parla anche di paura nel poter incontrare il suo ex: «Nel 2017 l’uomo, che aveva tentato di uccidermi, era uscito da un paio di anni dal carcere. Io avevo paura a uscire, paura di parlarne. in quell’anno ho avuto la fortuna d’incontrare l’allora presidente della Camera Laura Boldrini e di partecipare come testimone all’incontro da lei organizzato a Montecitorio. Ho incontrato tante donne vittime di violenza o che si occupano di prevenirla. Si è costituita una rete che mi ha dato grande forza. Nel 2019 mi sono abilitata come avvocata: è stato il riscatto della mia vita».
Su prevenzione e protezione delle vittime di violenza di genere insiste proprio Laura Boldrini, presidente dell’Intergruppo per le Donne, i Diritti e le Pari Opportunità, sottolineando fra l’altro che «ancora oggi ci sono dei meccanismi farraginosi che non consentono ai centri antiviolenza di ricevere in tempo i fondi. Stanziamo numerose risorse: basti pensare che siamo arrivati adesso a 30 milioni. Eppure, tali fondi arrivano in ritardo con tutte le immaginabili difficoltà per i centri ne garantire percorsi di prevenzione e protezione delle vittime. Ecco perché è necessario che passi a sistema il Piano nazionale contro la violenza di genere. Piano non straordinario ma ordinario, il che consentirebbe di avere una programmazione triennale. È quanto in realtà annunciato dalla ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti con riferimento alla legge di Bilancio 2022».
Si tratta dell’articolo 38 del ddl sulla manovra finanziaria che, firmato l’11 novembre dal presidente Sergio Mattarella, è ora all’esame del Senato. In esso si danno appunto disposizioni per il Piano strategico nazionale contro la violenza di genere con «cadenza almeno triennale».
Secondo la ministra Bonetti si tratta di «obiettivo che reputo storico e di piena attuazione della Convenzione. Tale scopo – così a Linkiesta – è quello di rendere strutturale, sulla base dello stesso trattato internazionale, un piano nazionale che definisca in maniera chiara obiettivi e politiche. Ma anche conseguentemente un monitoraggio che coinvolga i centri antiviolenza, le case rifugio, gli organi istituzionali e tutti i soggetti che sono protagonisti nel contrasto alla violenza contro le donne e finalmente stabilizzi le risorse destinate ai centri».
Per la titolare del dicastero delle Pari Opportunità, «mai più dunque azioni rinnovate di anno in anno. Ma finalmente una visione strategica, sistematica, stabile, strutturale nel tempo. Questo significa la concretezza dell’azione di un governo che vuole dare piena attuazione a quella Convenzione».