Al contrario dei colleghi a capo delle banche concorrenti, che pressano i lavoratori affinché tornino in ufficio, la nuova amministratrice delegata della Citigroup Janet Fraser, 54 anni, scozzese, prima donna a guidare una delle grandi banche di Wall Street, ha invece concesso massima libertà ai propri dipendenti. Quest’atteggiamento così conciliante, scrive Bloomberg Businessweek, nella realtà dei fatti è una vera e propria «arma per reclutare nuovi talenti e trattenere quelli che ci sono già».
Se da un lato quindi la strategia di Fraser ha l’obiettivo di inserire nuove risorse capaci di ristrutturare profondamente la Citigroup specializzandola sempre più nella gestione di grandi patrimoni, dall’altro ha anche l’ambizione di comprendere e orientare a proprio vantaggio una delle più grandi sfide di questi tempi, il fenomeno che negli Stati Uniti è stato denominato Great Resignation, la Grande Dimissione, un fenomeno che tuttavia sta interessando il mondo del lavoro a livello globale.
Mentre negli Stati Uniti i lavoratori dimissionari in cerca di migliori opportunità a settembre sono arrivati a 4,4 milioni, oltre ai 20 milioni dimessi tra aprile e agosto, altri, insoddisfatti della retribuzione e della qualità della vita, scelgono la via della protesta. Il Washington Post, evidenziando lo sciopero di diecimila dipendenti del produttore di macchine agricole John Deere ma anche le proteste dei sindacati che rappresentano i trentuno mila lavoratori dell’assicurazione sanitaria Kaiser, ci ricorda che quest’anno negli Stati Uniti si sono registrati almeno 178 scioperi.
In Cina, dove le nuove generazioni più disincantate rifiutano i salari bassi offerti nelle fabbriche tanto da far lamentare una crescente carenza di lavoratori qualificati in ambito tech, un gruppo di attivisti ha lanciato una campagna online, Worker lives matter, contro gli orari di lavoro massacranti nelle aziende, sintetizzati nella formula 996: cioè un impegno lavorativo che parte dalle 9 del mattino e termina alle 9 di sera per 6 giorni alla settimana. Il gruppo di attivisti anonimi che ha creato la campagna ha invitato i lavoratori del settore tecnologico cinese a inserire, dichiarandolo, il proprio orario di lavoro in una banca dati pubblica.
Anche se, come scrive Reuters, hanno risposto poco più di quattromila persone, banche dati di questo genere sono state create anche per altri settori compreso quello immobiliare. Lo scopo? Fornire alle persone uno strumento di consapevolezza su quali condizioni lavorative accetteranno nella scelta di un lavoro.
Prese di posizione che non risparmiano neanche il nostro Paese: secondo il ministero del Lavoro in Italia nel secondo trimestre di quest’anno si sono verificate 484mila dimissioni volontarie che hanno fatto segnare un aumento dell’85 per cento rispetto al 2020. La motivazione che a quanto pare sta guidando questo trend è strettamente connessa con la diffusione, soprattutto tra le giovani generazioni, della consapevolezza che si vive una volta sola. Da qui la definizione di YOLO economy, you only live once per l’appunto. Un trend che ha oltretutto dato il via a un vero e proprio boom di aperture di nuove partite iva.
Ma quali sono le forze in campo in questa che si preannuncia sempre più come una partita epocale?
Se da un lato è innegabile che i lockdown, verificatisi nel mondo secondo modalità e tempi diversi, abbiano innescato ovunque nei lavoratori un cambiamento profondo nel modo di intendere il proprio lavoro e la propria professione. In particolar modo nelle persone con impiego da dipendente le quali hanno appreso a dare voce e forma al bisogno di guadagnare maggiore flessibilità e autonomia nella gestione del tempo e del luogo per il lavoro. Condizione necessaria per ottenere un migliore bilanciamento con il tempo e il luogo da dedicare alla valorizzazione della vita privata, della relazione famigliare, degli interessi personali.
Dall’altro però è altrettanto innegabile che le aziende e i datori di lavoro non hanno ancora raggiunto lo stesso atteggiamento e le stesse consapevolezze dei lavoratori. Anzi! Secondo il recente sondaggio su oltre 10.569 knowledge worker condotto da Future Forum, attualmente è in corso una profonda disconnessione tra i due mondi su come immaginano il futuro del lavoro: la preferenza dei dirigenti per le politiche di ritorno in ufficio sta appunto minacciando la soddisfazione e la fidelizzazione dei dipendenti, in particolare delle lavoratrici e dei lavoratori con figli da gestire. Un dato su tutti: il 66 per cento dei dirigenti ammette che le scelte relative alla forza lavoro nei piani post-pandemia vengono effettuate con pochi o addirittura nulli input diretti da parte dei dipendenti. Tuttavia, la stessa percentuale di dirigenti ritiene di essere molto trasparente sull’argomento.
Anche se la motivazione varia di caso in caso, la ragione più comune di questa partita è la ricerca individuale del proprio benessere che abbiamo iniziato ad assaporare negli ultimi mesi di lavoro agile o remoto o smart. Un benessere ottenibile attraverso un migliore equilibrio tra questo e la vita privata e che passa attraverso una serie di bisogni reali tra i più disparati: non dover più sprecare il proprio tempo nel pendolarismo, per esempio, ma anche voler coltivare maggiormente le proprie attitudini e i propri interessi culturali, sociali, familiari.
Se dunque corrisponde al vero che i due terzi dei dirigenti finiscono con operare scelte scollegate da questo mutato sentiment, il risultato sarà del tutto evidente: traguarderanno solo quelle che al contrario avranno saputo adottare misure e modalità nuove, aperte, flessibile e dunque capaci attrarre i talenti in fuga da un modello di normalità che non soddisfa più. E mai come in questo caso non è più solo una faccenda di denaro in busta paga quanto di ricerca di valore e di valori nel lavoro e che il lavoro può trasferire all’individuo.