Il giorno 14 dicembre dell’anno 2001, in un incidente stradale, muore W.G. Sebald – domani saranno quindi vent’anni. In quello stesso anno, pochi mesi prima della morte, viene pubblicato il suo capolavoro, Austerlitz, vera summa della sua opera: è il libro più importante della letteratura europea di inizio secolo.
Nel maggio dell’anno seguente, Adelphi ne pubblica l’edizione italiana (e di seguito tutti i titoli, i due già pubblicati da Bompiani e tutti gli altri): sulla copertina color écru spicca la fotografia in bianco e nero di un bambino biondo in costume, mantellina sulle spalle e cappello piumato nella mano destra, tutto in bianco, sullo sfondo di un prato che sfuma verso un cielo lattiginoso ridotto a striscia dal margine inferiore incerto, degradante a destra. Invano si cerca lo sguardo del bambino ritrattato – e altrettanto succede per i crediti della fotografia. È un fantasma.
Ecco, credo non si possa dir meglio l’essenza della poetica di W.G. Sebald; nonché la fascinazione immediata che Austerlitz esercita sull’incauto lettore. La prima sensazione che si prova entrando nei lunghi paragrafi della prosa di S. è di allarme: c’è qualcosa di allarmante che non riguarda il contesto – almeno, non solo quello – ben sì il lessico, le locuzioni, la linfa allucinata che scorre tra le frasi e le illumina; la seconda, in perfetta consonanza, è la seduzione parallela che esercita la figura del narratore come uomo in ascolto, quasi suo malgrado e riconoscente: il lettore è portato a fare altrettanto per via di seduzione, come in un racconto del mistero, di cui il risonante récit romanzesco di Sebald ha il lustro d’ombra.
Il memorabile incipit vale per esteso: «Nella seconda metà degli anni Settanta mi recavo di frequente, in parte per motivi di studio, in parte per ragioni a me stesso non ben chiare, dall’Inghilterra al Belgio, a volte solo per un giorno o due, a volte per parecchie settimane. Durante una di quelle puntate in Belgio che – questa era allora la mia impressione – mi portavano in terre sempre molto lontane [il corsivo è mio], capitai anche, in una scintillante giornata di inizio estate, ad Anversa, città che fino a quel momento conoscevo soltanto di nome. Già all’arrivo, mentre sferragliando il treno avanzava lentamente sotto la volta buia della stazione, dopo aver attraversato un viadotto dalle strane torrette a guglia su entrambi i lati, fui colto da un senso di malessere [idem] che, per tutto il tempo trascorso quella volta in Belgio, non mi avrebbe più abbandonato».
Il narratore vaga per le strade intorno alla stazione tormentato dal malessere, finisce per trovare rifugio nel giardino zoologico e entra nel Nocturama. (Si tratta del luogo dove vengono alloggiati gli animali notturni). Poi il primo salto mnemonico: il narratore riferisce che nel tempo le immagini dell’interno del Nocturama si sono confuse con quelle relative alla Salle des pas perdus della Stazione Centrale di Anversa, dove ha incontrato Austerlitz per la prima volta. Il romanzo è già tutto in mostra e riverbera.
Non dirò nulla del personaggio Austerlitz, se non che è uno storico dell’architettura che visita per studio gli edifici normativi della civiltà moderna europea. Il narratore lo incontrerà diverse volte e lo ascolterà raccontare via via la sua storia di esiliato. Quel che conta sono le terre sempre molto lontane (la memoria) e il malessere (la percezione del destino di distruzione che accomuna singoli uomini, interi popoli, architetture e città). I due temi e il loro intrecciarsi in modi differenti sono ricorrenti in tutte le opere di Sebald; il paradigma è quello della analogia tra memoria e mistero; il tono quello del récit romanzesco e il timbro quello compassato e ossessivo del nato sotto Saturno. Era qualcosa che non si era mai letta prima.
A quel tempo lo stato della letteratura europea era al punto più basso: iniziava a venir meno la spinta dei grandi saggisti narrativi di lingua italiana e francese che costituivano il nucleo portatore le ragioni della letteratura e i suoi valori: si avvertiva il bisogno di figure autorevoli in grado di imporsi e marcare la differenza. (Samuel Beckett e Thomas Bernhard erano morti molti anni prima, entrambi nell’anno 1989; Italo Calvino nell’anno 1985 e Leonardo Sciascia nel 1989; Raymond Queneau era perito da tempo e Georges Perec lo aveva seguito nel 1982; Peter Handke faticava a uscire dall’epica della coscienza infelice, come si aspettava fin dallo splendido finale di Breve lettera di un lungo addio – ci sarebbe riuscito decenni più tardi, fino al coronamento di La ladra di frutta; Gianni Celati si tirava in disparte e si dedicava al cinema). W.G. Sebald sarebbe stato la figura che mancava.
La forza e la novità della narrativa di Sebald è nella forma: la lingua in consonanza con il discorso e il farsi fabula. Come sempre – è bene ricordarlo. Era una novità antica e tutta europea, per altro: mi riempì di gioia. Sebald stesso in una intervista rilasciata qualche mese prima di morire, rispondendo a una domanda malposta, aveva sgombrato il tavolo: «L’influenza deriva, se devo pensare a una derivazione [idem], dalla scrittura in prosa tedesca del XIX secolo, che ha ritmi prosodici molto pronunciati, dove la prosa è più importante, per esempio, dell’ambiente sociale o della trama in ogni sua manifestazione (…) l’ho sempre sentita molto vicina a me, anche perché quegli autori provenivano tutti dalla periferia delle terre di lingua tedesca, da dove vengo anch’io. Adalbert Stifter dall’Austria, Gottfried Keller dalla Svizzera. Sono entrambi scrittori meravigliosi che hanno raggiunto una grande, grandissima intensità nella loro scrittura (…) Hanno in comune questo dare la precedenza alla pagina composta con cura piuttosto che al meccanismo del romanzo, il modo preponderante di scrivere narrativa in altri luoghi in quel periodo, in Francia e in Inghilterra soprattutto». Parole che sono musica per le orecchie di chi avversava e avversa il flagello detto «pura narratività», oltre alla gioia di riconoscere la genealogia mai ripudiata con gli scrittori della prima Modernità.
(La parola che ho evidenziato in corsivo, derivazione, che S. infila in inciso dopo un «se devo pensare a una» e in risposta all’insipiente domanda dell’intervistatore – lei è stato influenzato [idem] dalla poesia tedesca? – è buon esempio di una qualità poco riconosciuta di S.: l’ironia. Oltre a offrire un esempio delle possibilità offerte dalla prosa narrativa di qualità: logos, discorso, non solo fabula).
La Memoria in Sebald è tutto, com’è dei grandi scrittori europei: ha una densità, un peso specifico diverso: così è per l’esiliato, l’emigrato per sfuggire all’incubo degli adoratori dello Stato e della Storia. (Gli emigrati è il titolo di uno dei libri di Sebald). È l’uomo lontano dal suo luogo e la sua lingua, dalla sua origine: così per rifrazione un originale e per antonomasia un uomo che se ne sta discosto: e anche un uomo in movimento, un promeneur, sulle piste lasciate da altri originali e con lo sguardo ai monumenti votati alla distruzione. La memoria è vertigine, per l’esiliato come per il vagante. (Vertigini è il titolo del secondo libro di S., dov’è in nuce il libro a venire). La letteratura è allora tragitto della memoria verso la Memoria: invenzione del vero. Con i suoi libri, Austerlitz sopra tutti, Sebald lo ricorda al lettore.
È fatale che Sebald incontrasse la fotografia, ed è il suo genio il modo di guardarla: «Ogni volta mi ha incantato il momento in cui sulla carta impressionata si vedono emergere, per così dire dal nulla, le ombre della realtà, proprio come i ricordi [idem]». Sebald scarta, di fronte alla convenzione della fotografia come illustrazione: le sue fotografie in bianco e nero a costellare il testo compatto a coprire la pagina sono riproduzioni fantasmatiche, come quella sulla copertina di Austerlitz: non ci avvicinano alle figure riprodotte ma ci tengono lontano: sono figure del commiato. Non posso che ripetere Sebald: proprio come i ricordi.
W.G. Sebald ha riportato la letteratura europea lì dove deve stare: sotto il segno della Memoria, unica musa. Oggi possiamo dire che ha riportato la forma di prosa narrativa detta romanzo all’originario statuto di forma aperta alla digressione e alle suggestioni della memoria, senza limiti dettati dalla realtà, il garbuglio di ideologia e isteria che è il sociale, le ilari regolette da kindergarten della pura narratività.
L’ampiezza del riverbero della sua opera è sotto gli occhi del lettore, in profondità e in estensione. Uno dei tre libri imperdibili della stagione appena chiusa, Panorama, dello sloveno Dušan Šarotar è di diretta e riconosciuta derivazione sebaldiana; i libri del figlio di emigrati Edmund de Waal (Un’eredità di avorio e ambra, il recente Lettere a Camondo) non sarebbero stati scritti senza l’apertura delle opere di S.; le storie di esilio, narrazione e destino di Daniel Mendelsohn, altro figlio di emigrati e autore del notevole Gli scomparsi, titolo molto sebaldiano, sono raccolte in un libro dal titolo che è un calco voluto, Tre anelli (Gli anelli di Saturno è il titolo di un magnifico libro di Sebald); in Italia, Filippo Tuena, scrittore felicemente eccentrico, ha all’attivo Le variazioni Reinach, da leggere fianco a fianco a Lettere a Camondo, e ha scritto la prefazione all’edizione italiana di Il fantasma della memoria, che raccoglie interviste e brevi testi sull’opera di Sebald. Scrive Tuena a proposito degli scrittori amati da Sebald, e sono quelli che sappiamo: «Citati o meno, discussi o meno, questi sono tutti autori che cominceremo a rileggere sub specie Sebaldi». Non può che far piacere sentirsi in buona compagnia.
L’ultimo sguardo è a una fotografia in Austerlitz: un uomo di spalle, con uno zaino su una spalla e lungo una strada bianca: «Affinché ancora una volta prendesse vita davanti ai miei occhi, come in un album, l’immagine di un paesaggio attraversato da un viandante e già quasi caduto nell’oblio». Voilà il viandante di Hölderlin, primo. Tout se tient – aveva ragione Ferdinand De Saussure.