Il Corriere della Sera ha pubblicato ieri un estratto di circa 15 minuti di ben 15 ore di interrogatorio di uno degli ex imputati del processo Becciu, monsignor Alberto Perlasca, già alto dirigente dell’ufficio amministrazione della Segreteria di Stato, divenuto la principale fonte di accusa a carico del cardinale, e di una decina di imputati nella nota vicenda relativa all’acquisto a prezzi spropositati, secondo l’accusa, di un ex magazzino Harrod nella centralissima Sloan Square a Londra.
Il processo, di cui si è scritto anche qua, è il simbolo – almeno nell’intenzione dell’ufficio della pubblica accusa vaticana (Il promotore di giustizia) – della lotta senza quartiere al malaffare interno alla Santa Sede promossa da Papa Bergoglio, che aveva provveduto a rimuovere dalle funzioni senza riguardi Becciu, ex sostituto del Segretario di Stato Parolin, ad indagini ancora in corso.
Come buona abitudine della giustizia laica, anche quella della sede di San Pietro si sta rivelando un colabrodo con lo stillicidio di anticipazioni, verbali ed oggi addirittura delle registrazioni degli interrogatori ancora segreti di uno dei testi decisivi dell’accusa.
Di esse, il Corriere ha pubblicato un estratto estrapolando alcuni passaggi assai scottanti. Il più importante di questi riguarda proprio la conoscenza e le direttive del Santo Padre (trattare o subire richieste presuntamente estortive?) intorno ai termini della controversa trattativa con cui la Segreteria di Stato ha sciolto un sodalizio affaristico – con il noto investitore internazionale Raffaele Mincione – sulla gestione di un immobile di cui diveniva piena proprietaria, ricorrendo all’intermediazione di un altro finanziere non propriamente noto ma sicuramente dotato di forti relazioni personali e istituzionali, Pierluigi Torzi, cui sono state pagate commissioni per 15 milioni di euro (secondo l’accusa, frutto di una estorsione).
Sul punto della diffusione via stampa degli atti, come dichiara a Linkiesta Massimo Bassi, difensore di uno dei principali imputati, non ci sonno dubbi: «Il divieto di pubblicazione c’è secondo l’articolo 106 del codice di rito del 1913 adottato dal Vaticano, e dura fino a quando dell’atto non sia data lettura (o visione) al dibattimento. Incredibilmente la sanzione è una contravvenzione ed essendo reato commesso all’estero non è neanche perseguibile dal Promotore».
Sulle registrazioni si era consumato uno dei primi strappi tra i promotori di giustizia e il Tribunale presieduto da Giuseppe Pignatone, che da Procuratore Capo a Roma aveva dimostrato una particolare attenzione al profilo dei rapporti tra il segreto d’indagine, l’informazione e la tutela della riservatezza dei soggetti coinvolti nei procedimenti penali.
L’accusa, pur avendo dato atto nei verbali delle indagini delle registrazioni, si era rifiutata di depositarli nonostante l’ordine dei giudici, sollevando il rischio della loro indebita diffusione con la possibile lesione dei diritti di riservatezza delle persone intervenute o menzionate negli atti.
Una tesi innovativa che il Tribunale aveva respinto sottolineando la natura di atto pubblico degli interrogatori, e dunque delle loro registrazioni.
La pubblicazione ha colto di sorpresa anche il collegio difensivo, alcuni legali hanno già espresso il loro personale dissenso pubblicamente, ed è prevista una comune presa di posizione contro quello che sembra a tutti gli effetti un tentativo di spostare l’attenzione su profili esterni e istituzionali, compreso l’attacco al pontificato bergogliano, del tutto estranei al processo.
Ma il tema non è questo, quanto la solita delicata materia della circolazione clandestina di verbali giudiziari per fini che con la ricerca di giustizia hanno poco a che fare e che, come si vede, accomuna giurisdizioni così diverse come quella vaticana e quella italiana.
Linkiesta ha affrontato questo aspetto numerose volte, l’ultima delle quali per vicende “profane” come i casi Renzi/Open e l’indagine sulle plusvalenze della Juventus, il processo della Santa Sede dimostra, se ce ne fosse bisogno, che la circolazione clandestina di atti giudiziari di qualunque natura (tabulati, intercettazioni, documenti contabili, filmati), prima della produzione nel pubblico processo, costituisce più un grave rischio di inquinamento che un servizio alla verità e alla giustizia.
È sempre stata questa la giustificazione data allo smercio di materiali (quasi esclusivamente in chiave di accusa): un presunto controllo sociale della pubblica opinione sulle indagini giudiziarie.
Invece tale prassi, promossa sin dai tempi di Mani Pulite (ma volendo si può risalire nel tempo anche al caso Montesi), dimostra che il fine principale è quello di intorbidare le acque e produrre distorsioni della realtà, ancora più gravi quando siano idonee a sostenere e avallare le tesi dell’accusa.
Vi è un solo rimedio, e lo ribadiamo come giornale ancora una volta: una precisa mirata riforma dell’articolo 114 del codice di procedura penale che estenda il segreto di ufficio degli atti d’inchiesta, con il conseguente divieto di loro pubblicazione, adeguatamente sanzionato, almeno fino alla loro ammissione nel processo da parte del Tribunale e all’inizio della istruttoria dibattimentale.
Risparmiamoci le solite giaculatorie sul bavaglio: in diverse democrazie occidentali come gli Stati Uniti la prassi della circolazione extra-corporea di materiali giudiziari sensibili costituisce oltraggio alla Corte ed è punito severamente anche con l’esclusione delle prove anticipate dalla decisione finale.
Ora fate mente locale e pensate ad esempio se non si trovasse mai traccia della famosa carta di Ronaldo oppure che il Tribunale rifiutasse di acquisire l’estratto conto di Renzi perché irrilevante ai fini della decisione: sarebbe giusta la colata di fango preventivo sugli imputati in base a materiale neanche utilizzabile nel processo?
È sperabile che la vicenda vaticana, con il probabile ennesimo uso distorto di verbali per manovre (forse) destabilizzanti e certamente non in aiuto degli imputati, spinga a una accentuata riflessione e ad adottare l’unico rimedio possibile: adeguate sanzioni per i responsabili della fuga di notizie.
In fondo l’informazione strumentale e faziosa è un virus e come tale va combattuta anche coi divieti, come dimostra la guerra alla pandemia. Perché di emergenza parliamo: nessun diritto può espandersi contagiosamente in danno di altri, neanche la santa informazione.
*L’autore fa parte del collegio dei difensori degli imputati