Una coppia di pescatori è appena rientrata dalla battuta mattutina. Sono a mani vuote. «Succede sempre più spesso», spiega Lhut, 55 anni, nato e cresciuto in questo piccolo villaggio nella provincia di Nakhon Phanom, nel Nord Est della Thailandia, lungo le rive del fiume Mekong al confine con il Laos. «Io e mia moglie usciamo all’alba e rientriamo nel primo pomeriggio ogni giorno. Sappiamo che potremmo tornare senza niente, ma non possiamo fare altro se non provarci. Da generazioni io e la mia famiglia viviamo grazie alla pesca, ma adesso è tutto cambiato e siamo disperati», continua, mostrando le reti che per l’ennesima volta non hanno raccolto nulla. «Non ci resta che andare al Wat (tempio buddista, ndr) e pregare per far tornare i pesci», aggiunge l’uomo con un viso cupo, mentre assieme a sua moglie sale sul motorino e piano piano si allontanano su un sentiero sterrato e polveroso.
Dall’altopiano del Tibet, il Mekong scorre per quasi 5mila chilometri attraversando la Cina, il Myanmar, la Thailandia, il Laos, la Cambogia e il Vietnam, per poi riversarsi nel Mar cinese meridionale. È uno dei fiumi più grandi dell’Asia e il settimo più lungo al mondo. Imponente, accattivante e ricco di leggende affascinanti. Come quella dei Naga, i «serpenti guardiani», che si crede vivano nelle acque del Mekong e che per la mitologia induista e buddista, tengono lontane le anime cattive e dispensano tesori. Il mito racconta del loro potere di controllare le piogge e, con esso, quello di influire sulla prosperità dei raccolti. Altre ancora narrano che sarebbero custodi dei tesori della terra e delle acque, dalle pietre preziose ai cristalli, dall’oro all’argento, fino alle perle e che si manifestino una volta all’anno.
Ma oltre alle credenze, che in questa zona del mondo sono comunque una parte importante e integrante della vita quotidiana, il Mekong è un prezioso scrigno di diversità biologica. Il fiume, infatti, nutre le giungle, irriga i raccolti di decine di milioni di persone e, fino ai primi anni Duemila, vantava la più grande pesca interna del mondo, che rappresentava circa il 25 per cento del pescato globale in acqua dolce. E le circa mille specie conosciute di pesci, fino a qualche anno fa, riuscivano a sostenere una popolazione di 60 milioni di abitanti. Nel bacino idrografico del Mekong vivono oltre 95 etnie diverse e, per molte di esse, la principale fonte di proteine è rappresentata quasi esclusivamente dal pesce pescato. Inoltre, gli agricoltori delle terre vicine al «Fiume madre», così come viene chiamato dagli indigeni locali, riuscivano a produrre abbastanza riso per sfamare più di 200 milioni di persone ogni anno.
Oggi tutto è cambiato. Le 11 dighe principali e le altre 120 più piccole già realizzate o in fase di realizzazione dalla Cina sul Mekong e suoi suoi affluenti, producono improvvise fluttuazioni dei livelli dell’acqua, che a loro volta interferiscono con la migrazione dei pesci e con la deposizione delle uova.
E la quantità dei nutrienti presenti nel fiume è diminuita drasticamente, mettendo così in serio pericolo il già fragile sistema fluviale. Quelli che vengono chiamati «fortificanti naturali», infatti, sono fondamentali per la salute dell’acqua ed essenziali per mantenere in vita i pesci. Anche il colore del fiume sta pian piano cambiando, il colore fangoso tipico del Mekong, sta assumendo a tratti una tonalità di verde-azzurro per la mancanza di terra trasportata a valle e, di conseguenza, di sostanze nutritive.
«Nulla è più come prima, non c’è più niente di naturale qui», dice Sukanayaa, 53 anni, di Baan Duea, un piccolo villaggio di pescatori nella provincia di Nong Khai, 280 chilometri più a Nord di Nakhon Phanom. «Speriamo che il livello dell’acqua rimanga accettabile oggi. Quando è troppo alto o troppo basso i nostri pesci muoiono e noi non abbiamo nulla da mangiare e nulla da vendere», aggiunge.
La presenza delle centrali a monte e il controllo dei flussi operato da Pechino che li gestisce a seconda della convenienza dei suoi contadini e delle compagnie dei numerosi impianti idroelettrici affacciati lungo il grande bacino, interrompe senza nessun preavviso la corrente d’acqua verso valle, e si ripercuote negativamente su tutti i Paesi più a Sud. Oltre, ovviamente, sulle abitudini quotidiane di intere comunità. «Qui abbiamo sempre vissuto grazie alla pesca, ma con le dighe cinesi la nostra vita è cambiata. Hanno stravolto le nostre abitudini. Ormai non usciamo quasi mai con la barca, non avrebbe senso, non c’è più niente da prendere, se non le carcasse», spiega Sukanayaa.
La Cina ha completato la sua prima diga idroelettrica sul Mekong nella provincia dello Yunnan nel 1995 e da allora non si è più fermata. Recentemente, lanciando un programma di assistenza economica alla Thailandia, al Laos e alla Cambogia per la produzione di energia elettrica, ha finanziato la costruzione di altre decine di argini artificiali nei loro territori. Ma le dighe idroelettriche, sebbene siano un’alternativa più pulita al carbone, stanno causando un vero e proprio disastro ambientale. I governi dei Paesi interessati però, puntando soprattutto alla crescita economica nonostante gli impatti negativi, sono determinati a proseguire i lavori di costruzione. «L’interesse dei politici regionali è totalmente assorbito dallo sviluppo delle infrastrutture», dice Pou Sothirak, direttore del Cambodian center for cooperation and peace (Cicp) ed ex ministro dell’Energia di Phnom Penh. «Vogliono solo più energia e credono che la costruzione di dighe migliorerà la loro economia nazionale, ma non è così».
Oltre alle gravi conseguenze ambientali, esiste un forte pericolo dal punto di vista strategico. La Cina ha ormai il potere di fermare il flusso del Mekong, e di conseguenza la forza di devastare intere zone agricole negli Stati a valle. Pechino potrebbe sfruttare questa minaccia per avere maggior influenza nell’area e non solo, a cominciare dai piani per l’espansione delle Nuove vie della Seta. Le infrastrutture in costruzione hanno anche l’obiettivo di consentire a navi di tonnellaggio più elevato di percorrere il fiume fino a Luang Prabang, l’antica capitale del Laos. Questo aprirebbe una nuova, grande via commerciale per il trasporto di merci. Già nel 2017 Eugene Chow, un esperto indipendente di relazioni e sicurezza internazionale, ha descritto le dighe come «armi nascoste in bella vista che consentono alla Cina di tenere in ostaggio un quarto della popolazione mondiale senza sparare un solo colpo».
«Pechino sta usando le dighe come strumento di pressione politica», spiega Thitinan Pongsudhirak, docente all’Università Chulalongkorn di Bangkok. «Aumenta la quantità di acqua da rilasciare quando le autorità vogliono migliorare le relazioni con i vicini», aggiunge. In particolare alla vigilia di eventi politici importanti, come le riunioni dell’Asean, l’associazione dei Paesi del Sud-Est asiatico, della quale la Repubblica Popolare non è parte, ma è come se lo fosse. Nell’ultimo incontro, andato in scena lunedì 22 novembre, per il trentesimo anniversario di dialogo e relazioni tra Asean e Cina, il presidente cinese Xi Jinping ha sottolineato l’importanza che attribuisce al Sud-Est asiatico nella sua diplomazia, impegnandosi a migliorare le relazioni con la regione per concentrarsi maggiormente sulla cooperazione per la sicurezza e, ovviamente, sui finanziamenti per lo sviluppo, dighe comprese.
Intanto il «Fiume madre» e le popolazioni che da generazioni vivono in simbiosi con esso, stanno lentamente morendo. Nel 2040, secondo gli scenari pubblicati nel 2018 dal Mekong River Commission (Mrc), un’organizzazione intergovernativa che è stata istituita nel 1995 e lavora direttamente con le autorità di Cambogia, Laos, Thailandia e Vietnam fornendo ricerca, indagini e coordinamento dello sviluppo sulla gestione delle risorse idriche nel bacino inferiore, in queste zone la quantità di pesci diminuirà, secondo diversi studi, tra il 40 e l’80 per cento e i sedimenti si ridurranno tra il 67 e il 97 per cento.