Se aprite una qualunque piattaforma di streaming in questi giorni non ci crederete, ma vi giuro che fino a poco tempo fa i commentatori culturali volevano tutti fare gli sceneggiatori. Per una ragione banale: si guadagna meglio. Qualcuno ci è persino riuscito, e non è mai tornato indietro (sempre per quella ragione dei bonifici). Altri no, perché fare lo sceneggiatore era un lavoro l’accesso al quale richiedeva che tu sapessi costruire una storia.
Poi non so cosa sia successo, ma è arrivata la fine del 2021, quella in cui i migliori raccontatori di storie hanno evidentemente deciso che sì, va bene, mettiamoci la trama, i personaggi, tutto quel che vi pare; ma, innanzitutto, nel mio film o nella mia serie dev’esserci la morale allo spirito del tempo, il commento culturale a ciò che siamo e ciò che vogliamo, la poderosa metafora dei nostri limiti come società.
Su Sky e su Now c’è Santa Inc., una di quelle cose a disegni (si chiamano ancora cartoni animati o s’è deciso che servisse un termine più sofisticato?) in cui Babbo Natale deve scegliere un successore (dopo che il prescelto è andato a lavorare per Jeff Bezos) e un’elfa vuol essere lei, ma insomma è una femmina, e con le sue fissazioni per la sostenibilità e l’assicurazione sanitaria, forse non è adatta.
Dovremmo – noi pubblico – pensare che lo è, adatta, e che è discriminata solo perché femmina (Seth Rogen, ideatore della serie, ha detto che le stroncature vengono da suprematisti bianchi che mal tollerano il Natale gestito da un’ebrea: la voce dell’elfa è di Sarah Silverman). Però, quando l’elfa dice che non ci sono borsine di regali al termine del consiglio d’amministrazione perché sarebbe consumista e inquinante regalare roba inutile, non si può non simpatizzare col consigliere (probabilmente suprematista bianco) che sbotta: e cos’altro credi che sia il Natale?
Non è che le altre piattaforme siano meno piene di buone intenzioni. Su Prime c’è Aaron Sorkin che, con la scusa di raccontare Lucille Ball (una specie di Raffaella Carrà d’America) e il suo I love Lucy (una specie di Casa Vianello degli anni Cinquanta), racconta il maccartismo e quant’è difficile essere la più intelligente del gruppo quando sei una donna e, oltre a risolvere i problemi lavorativi, devi pure farlo di nascosto perché i maschi del gruppo non si sentano esautorati.
Being the Ricardos (Ricardo era il cognome della coppia che, in I love Lucy, interpretavano Lucille Ball e il marito Desi Arnaz) è il prodotto più femminista che abbia visto quest’anno, ma la curva pavloviana degli antisorkiniani ha deciso che è un autore maschilista, e non c’è evidenza che basti a placarne il riflesso automatico. Dev’essere perché ormai il femminismo è un hobby maschile, e se sei un maschio è spiacevole essere costretti a pensare che quello che negli anni Cinquanta avevano Lucille Ball e poche altre è ora il principale problema delle donne di successo: se guadagni più di lui, poi a tuo marito non gli tira più (non con te, almeno).
Su Netflix la metafora ha un po’ preso la mano ad Adam McKay, che in Don’t look up racconta una fine del mondo che si potrebbe evitare ma purtroppo siamo ottusi, purtroppo siamo avidi, purtroppo abbiamo le priorità sbagliate. Piace tantissimo a quelli che la metafora la vogliono ribadita a ogni scena, che vogliono che in due ore e venti venga loro detto duecentoventi volte «guarda, finirà così anche coi vaccini», e prima ancora di finire il film vogliono correre sui social a dire finirà proprio così, Adam McKay è il George Orwell che questo secolo si può permettere. Non mi è chiarissimo come vaccinarsi o non vaccinarsi possa far esplodere il pianeta all’impatto con una cometa, ma dev’essere perché a scuola andavo male in metafore.
Anche lì c’è l’uomo vendicativo del successo femminile: quando Jennifer Lawrence scopre la cometa che distruggerà il pianeta, il suo fidanzato – un opinionista con ambizioni televisive che si picca di fare giornalismo serio e non solo robaccia per moltiplicare i clic – scrive un fondamentale saggio in prima persona intitolato «La tizia che dice che stiamo per morire tutti? Me la sono scopata». Dovrebbe essere il più squallido dei cattivi: è l’unico personaggio plausibile. Lui, e il generale che porta agli scienziati l’acqua della mensa della Casa Bianca, e se la fa pagare come l’avesse presa alle macchinette.
L’effetto paradossale è che tutti questi prodotti fatti per renderci ceto medio riflessivo – o, se lo siamo già, per farci specchiare in personaggi che, guardandoli, ci ricordino che, ehi, noi siamo i buoni, noi siamo i giusti, noi se non ereditiamo la Terra è solo perché non c’è meritocrazia – tutti questi prodotti fanno invece venir voglia di smettere di fare la differenziata, di non pagare le tasse, di andare a rivedere Succession dove almeno sono tutti stronzi e meschini e nessun professore di provincia tenta di salvare il mondo e nessuna elfa benintenzionata vuole il Natale sostenibile e nessuna donna di successo si sbatte perché il marito venga gratificato dai produttori.
Al cui proposito: il mio personaggio preferito di Santa Inc. è lo stagista ruffiano che, se lo guardate non doppiato, ha la voce dell’attore che in Succession fa il cugino Greg, il giandone che non è cresciuto tra i ricchi ma ora che si è trovato un posticino là in mezzo non è disposto a rinunciarci. Mentre Babbo Natale continua a ripetere che lui aveva scelto il primo successore nero, e ora forse potrebbe persino scegliere una donna, e insomma chi più progressista, illuminato, intersezionale di lui?
Ma il dettaglio rivelatore, ancora una volta, sono le mogli. È quando la moglie di Babbo Natale dice all’elfa che ha molto apprezzato il suo discorso al consiglio d’amministrazione, che ho capito che abbiamo un problema. Quando le dice che i discorsi del suo predecessore sembravano sempre una visita al circo, e il suo invece sembrava un documentario sull’Olocausto, e lo dice come fosse un complimento. Mi hai annoiato e depresso: si vede che sei una persona seria e che, se fossimo una società come si deve, saresti la nostra prima scelta per governare il mondo. Chissà perché, mi è venuta in mente la giacca marròn di Achille Occhetto nel confronto televisivo con Berlusconi.