Mia madre si lamentava di come mi vestivo: «Marco, ma perché non prendi esempio da tuo padre, un uomo elegante, che tiene al suo aspetto?» questo mi diceva in continuazione ma io non è che proprio capissi del tutto cosa intendesse, considerando che era l’unica persona che si preoccupava del mio modo di vestire , preoccupazione che io consideravo superflua e dunque mi sembrava strano che qualcuno, foss’anche mia madre, notasse i miei pantaloni, osservasse le scarpe, criticasse lo stato delle mie giacche.
Per me, vestirsi, all’epoca, era come mangiare – una pietanza valeva l’altra – il problema di selezionare con attenzione come nutrirsi o vestirsi non mi sfiorava, dovevo solo sfamarmi e coprirmi, io avevo ridotto all’osso le necessità. Insomma, col senno di poi, mi trovavo all’interno di un banale screzio generazionale che credo non facesse particolarmente male né a lei né tantomeno a me, e forse era un modo inconscio per tenerci in contatto. Io e mia madre non vivevamo nella stessa città per cui ci vedevamo di tanto in tanto e, ogni volta che questo accadeva, la tenera lamentela riprendeva il suo spazio per poi sfumare rapidamente, perché i figli maschi sanno come ammansire le proprie madri, come ammorbidire le loro pretese, come spingerle delicatamente a trasformare una critica in pregio perché, al di là del classico proverbio dello “scarrafone”, solo le madri sanno guardare dentro un figlio e intuire che, probabilmente, ciò che a loro appare sbagliato potrebbe trasformarsi, prima o poi, in un valore.
«Marco ma cosa hai fatto? Oggi ricordi un lord inglese, non ti ho mai visto così elegante ma, soprattutto, così “vestito”, nel senso che stamattina hai davvero pensato a cosa metterti». Era una delle volte che tornavo da lei per salutarla e sembrava folgorata dal mio abbigliamento.
«Mamma, ho conosciuto uno stilista, anzi, direi più uno che inventa abiti, si chiama Piombo. E, insomma, mi ha invitato da lui e mi ha regalato un sacco di cose perché dice “che gli sto simpatico” allora io ho esagerato e me ne sono approfittato… giacche, camicie, pantaloni, mi ha regalato cose che non mi sarei mai comprato, non sai quante incredibili cravatte ecco, che te ne pare?»
«Marco, io non so chi sia questo tuo amico che ha un cognome così strano, però il signor Piombo ha una bacchetta magica secondo me, oggi sei sempre tu ma anche un altro».
Mia madre, era evidente, non credeva ai suoi occhi e, in parte, anch’ io ero abbastanza stranito. Come un bambino ingordo avevo fatto una scorpacciata di “cose” Piombo andando nel suo magazzino in collina, in Liguria, ed effettivamente era la prima volta che mi sentivo “addosso” qualcosa che poteva attirare gli sguardi degli altri e, a ogni specchio che incrociavo, me la gettavo un’occhiata furtiva per vedere se c’era sempre il Marco che conoscevo oppure mi stavo effettivamente trasformando in ciò che mia madre aveva sempre desiderato: un uomo elegante. «Marco mi daresti l’indirizzo di questo Massimo Piombo, vorrei scrivergli due righe per dirglielo che produce degli abiti bellissimi».
Stupito, ma fino a un certo punto (mia madre era una donna originale), le fornii l’indirizzo del mio nuovo amico e non pensai più a quella richiesta anomala.
«Marco ciao», era Piombo dall’altro capo del filo, «mi ha scritto tua madre». L’imbarazzo mi assalì: conoscevo Massimo da pochissimo tempo e il fatto che mia madre si fosse intrufolata tra di noi un po’ mi metteva a disagio, e ancora non sapevo cosa gli avesse scritto. «Ascolta, è troppo simpatica, ti leggo il bigliettino: “Gentile signor Massimo Piombo, io non la conosco se non di nome però la devo ringraziare; in pochissimo tempo lei è riuscito a vincere al mio posto quella che io, ormai, consideravo una battaglia persa. Marco, da quando la conosce, è diventato una persona elegante, ma non di quella eleganza che magari trasfigura una persona, no, ora lui si veste come dovrebbe vestirsi uno che si chiama Marco ed è mio figlio, cioè si veste come avrebbe sempre dovuto fare ma io non riuscivo a farglielo capire; lei è riuscito in questo intento e io gliene solo grata. Per sempre. Miranda”».
Ora, è evidente che all’origine di certi rapporti duraturi ci sono big bang insospettabili, coincidenze incredibili, avvicinamenti già scritti prima di accadere ma che non tutti riescono a leggere prima eppure, nel nostro caso – mi riferisco al rapporto tra Massimo e me – dopo un esordio del genere, in questa triangolazione anomala che mi diede da pensare, sembrò naturale non solo diventare amico di Piombo ma condividere con lui – a volte solo per sederci insieme sulla spiaggia di Varazze e guardare le onde – tutto il tempo che potevamo.
Lui e io siamo molto diversi, ma sentimmo da subito che ci completavamo e in questo riassumerci vicendevolmente intuivamo che c’era qualcosa che ci faceva bene. Lui mi ha trasformato in una persona che, da un certo punto in poi della propria vita, aveva iniziato a raccogliere commenti del tipo «ma dove hai preso questa giacca pazzesca? Chi ti fa le camicie che si notano prima ancora di vedere te? Ma come sei elegante oggi, hai un appuntamento che non vuoi dire?»
Queste alcune delle frasi che mi sentivo ripetere sempre più spesso e io ero orgoglioso e mi chiedevo quale fosse il segreto di Massimo. Lui, invece, si faceva raccontare da me cosa succedeva in libreria, quali fossero i libri del momento e spesso mi chiedeva di leggergli dei versi, miei o di altri, perché, diceva, «mi ispirano».
Così si mise in testa di scrivere, di leggere tutti i libri che gli consigliavo (e spesso – testa dura – anche quelli che, per professione, gli ingiungevo di evitare) e così avvicinarsi al mio mondo come io mi ero avvicinato al suo. Io “leggevo” le sue giacche, lui “indossava” i miei testi e così la nostra amicizia non finiva mai il carburante, perché le idee che maturavano tra noi, come frutti ribelli, dunque fuori stagione, erano addirittura troppe e con gli scarti di esse passavamo le notti a capire come mettere insieme i nostri due mondi, apparentemente distanti, ma grazie alla nostra amicizia vicinissimi.
Massimo ha sempre avuto una capacità straordinaria di decidere, in un attimo, quale sia la cosa giusta da fare. Mi ha sempre attirato questa sua sicurezza, che si trattasse di stoffe, di colori, di vetrine, di immagini per le copertine dei libri che facevamo insieme soprattutto per divertirci e che finivano nelle tasche delle sue giacche come fossero la pentola d’oro alla fine dell’arcobaleno; girando insieme per mercatini individua ben prima di me il capo vintage utile perché, un pezzo bello del passato, mi ha sempre detto, «altro non è che la staffetta che ci porta nel futuro», e così mi ripete come un mantra, da quando ci siamo trovati, che il suo unico sogno è «vestire tutti» e che dunque ha come massima aspirazione l’essere pop, come una rockstar. Come Bob Dylan.
Quando iniziò a scrivere sui giornali vedere la sua firma un po’ mi inorgogliva; io sapevo che quello che scriveva era anche frutto delle nostre interminabili chiacchierate, ma mentre lui riusciva a saltare il fosso della sua specializzazione, scrivendo, io più che indossare i suoi capi non riuscivo a fare, perché non avevo la stoffa per occuparmi di stoffe. Certo, sono sempre stato un apostolo delle sue manifatture, credo di aver avviato a “vestirsi Piombo” decine di miei amici o anche solo conoscenti occasionali sui quali faceva colpo il mio abbigliamento (ma era utile anche per farmi notare, come no), innescando così una viralità che neanche i social. Qualcuno, al corrente della nostra amicizia, avrebbe potuto pensare che tra noi potesse far capolino l’invidia e, invece, questa non è mai entrata nel nostro rapporto; Massimo a suo tempo mi aveva reso elegante, in qualche modo per sempre e, soprattutto, aveva reso felice mia madre.
Dalla prefazione a “VVV Vestire viaggiare vivere”, di Massimo Piombo, La Nave di Teseo, 2021, pagine 144, euro 17