Fuori ruoloLa carica dei 200 magistrati che scrivono le leggi al posto dei politici

Il Csm denuncia la mancanza di mille giudici in organico, ma ci sono molte toghe lontane dai tribunali che fanno i capi di gabinetto o guidano gli uffici legislativi dei ministeri. «Un’occupazione militare», secondo il presidente delle Camere Penali Caiazza. «Così il potere giudiziario influenza l’esecutivo e il legislativo», secondo l’ex viceministro Costa

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Ce ne sono decine nei nostri ministeri. Occupano posizioni di vertice, scrivono le leggi, guidano i dipartimenti. Sono i magistrati “fuori ruolo”, quelli che non vanno in tribunale ma lavorano per altre amministrazioni dello Stato. Restandoci per molti anni. Sono circa 200, un numero significativo in un momento di sofferenza per il settore.

Solo pochi giorni fa il Consiglio superiore della Magistratura ha lanciato l’allarme: «Su 10.751 posti previsti nelle piante organiche, le presenze effettive di magistrati in servizio sono 9.131». Ne mancano più di mille. Ragion per cui, incalza l’organo di autogoverno, è necessario riformare il concorso aprendolo a tutti i neolaureati in giurisprudenza. Anche in vista della realizzazione degli obiettivi posti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, cioè lo smaltimento dell’arretrato e il taglio della durata dei processi civili e penali, rispettivamente del 40 e del 25 per cento.

Manca il personale, eppure 200 toghe sono assegnate ad altre amministrazioni. Solo al ministero della Giustizia ci sono un centinaio di magistrati con ruoli di primissimo piano. Capi di gabinetto, direttori generali, membri dell’ufficio legislativo, ispettori generali. «Un’occupazione militare e un’anomalia mondiale», la definisce il presidente dell’Unione Camere Penali Gian Domenico Caiazza. Non è solo una questione di risorse e organici. A via Arenula i magistrati scrivono materialmente le leggi, gli emendamenti, i commi. Capo e vicecapo dell’organo legislativo sono due toghe, cui si aggiunge una decina di colleghi nello stesso ufficio. «Così il potere giudiziario si insinua nell’ambito dell’esecutivo e del legislativo», spiega a Linkiesta Enrico Costa, già viceministro della Giustizia, oggi deputato di Azione.

«Il 90 per cento delle norme che passano dal ministero sono scritte dagli uffici legislativi. I membri del governo le recitano come juke box perché non conoscono la materia specifica e si fidano di quegli uffici». Dietro le scrivanie siedono giudici e pubblici ministeri. «Professionisti qualificati», chiarisce Costa. «Ma si rischiano sbilanciamenti nella valutazione delle norme e resistenze corporative». Una consuetudine, per qualcuno. Di fatto una pericolosa sovrapposizione. «Il potere giudiziario non dovrebbe mettere bocca su come si scrive una legge», riflette Gian Domenico Caiazza al telefono con Linkiesta. «Invece ogni volta in cui si forma un governo, si fa quest’operazione politica con le correnti della magistratura per distaccare giudici e pm. Un tema evidente ed enorme su cui tutti stanno zitti».

Un esempio di questa prassi l’ha raccontato Luca Palamara nel suo libro “Il sistema” pubblicato un anno fa. L’aneddoto riguarda Paola Severino, ministro della Giustizia del governo Monti. Il magistrato e consigliere del Quirinale Loris D’Ambrosio avvertiva l’ex capo dell’Associazione nazionale magistrati: «La Severino è un grande avvocato ma non conosce gli equilibri della magistratura. Tu la devi aiutare, devi avere un feeling con lei». Palamara traduce: «Dovevo mettere i miei uomini al ministero. Così ogni corrente ha piazzato i suoi nella più classica delle lottizzazioni, persone che la Severino neppure conosceva. Del resto il potere è innanzitutto controllo». 

Le toghe non circolano solo a via Arenula, ma un po’ in tutti i Palazzi del potere romani. Con incarichi che in altri Paesi vengono svolti da alti funzionari di carriera. Scorrendo la lista redatta dal Csm, aggiornata al 30 aprile 2021, si legge che cinque magistrati lavorano alla Farnesina, mentre il capo dell’ufficio legislativo del ministero delle Finanze è un magistrato proveniente dalla Corte d’Appello di Roma. La numero due dello stesso organo al ministero dell’Ambiente è una giudice. Il capo di gabinetto del ministero del Lavoro è una ex pm. A dirigere l’ufficio di stretta collaborazione di Roberto Speranza c’è un’ex giudice per le indagini preliminari. Altri colleghi sono distaccati a Palazzo Chigi e al ministero dei Trasporti.

Poi ci sono le autorità indipendenti: quella per la Concorrenza e il Mercato è guidata da un giudice tributario e ha come capo di gabinetto una toga proveniente dal Tribunale delle Imprese di Napoli. L’Authority per l’infanzia e l’adolescenza è nelle mani dell’ex presidente del Tribunale per i minorenni di Trieste. Altri magistrati sono in enti internazionali, da Bruxelles a Strasburgo. Ma ci sono anche alcuni casi emblematici, che si ripetono da anni. «Perché ai vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ci devono essere sempre dei pubblici ministeri?». La domanda del capo delle Camere Penali Caiazza resta senza risposta.

Le toghe nei ministeri sono personalità di alto livello. Hanno curricula inattaccabili. Ma c’è anche una ragione squisitamente economica per la loro presenza così massiccia nelle stanze dei bottoni. «Il ministro – spiega Enrico Costa – ha un budget da spendere per comporre il suo gabinetto. Se prende una persona già stipendiata da un’altra amministrazione dello Stato, risparmierà quei soldi e dovrà pagare solo l’indennità aggiuntiva. Questa collocazione conviene anche ai fuori ruolo, che andando al ministero ottengono una retribuzione aumentata rispetto a quella solita. Oltre a un lavoro meno valutabile».

La situazione è nota da anni. La ministra Cartabia ha fatto un primo passo, nominando come vicecapo di gabinetto un professore universitario. L’Unione delle Camere Penali sta lavorando a una legge di iniziativa popolare sul distacco dei magistrati. «Per parlare di indipendenza e autonomia tra magistratura e politica bisognerebbe partire da qui», ragiona Caiazza. 

In molti invocano una riforma del Csm che faccia chiarezza sui fuori ruolo. A partire da Enrico Costa, che resta prudente: «C’è la volontà politica del Parlamento, bisogna vedere fino a che punto il governo abbia intenzione di scontrarsi con i suoi collaboratori. Ho un dubbio: con quale approccio l’ufficio legislativo del ministero analizzerà i miei emendamenti sul Csm in cui dico che i ’fuori ruolo’ non devono più esserci?». Ai magistrati l’ardua sentenza.

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