«Questo autunno la tv tradizionale ha visto un calo di circa 2 milioni di contatti in media al giorno, rispetto a due anni fa. C’è bisogno di dirle altro sul perché dobbiamo smettere di continuare a dire che il mondo è cambiato e poi non fare nulla per cambiare anche noi?». La presidente della Rai Marinella Soldi, ad appena un mese dall’approvazione del nuovo modello organizzativo di viale Mazzini, al Corriere spiega i progetti futuri per salvare dal declino la tv di Stato. «Basta entrarci in Rai per capire che può e deve essere protagonista della trasformazione digitale ed ecologica del Paese. Ma il cambiamento spaventa, bisogna aver visione, coraggio e pazienza», dice. Ammettendo che «da persona cresciuta all’estero, in aziende dalla forte impronta multinazionale», quando è arrivata la chiamata ha avuto «la tentazione di dire di no».
I numeri di partenza però confermano che «la Rai è tuttora considerata un riferimento», spiga Soldi. «Raggiungiamo 30 milioni di italiani ogni giorno, oltre 20 milioni gli utenti registrati su RaiPlay, superiamo regolarmente i 10 milioni di spettatori con i grandi eventi da Sanremo allo sport, siamo capaci di generare fenomeni social e trasversali – pensiamo al Collegio – , coniugare cultura e audience con appuntamenti come la prima della Scala e la nostra capacità di copertura del pubblico non ha eguali in Italia».
Ma la presidente non nega la lentezza e l’inerzia della tv pubblica. «Come tutte le aziende in questo momento, ma maggiormente per la nostra natura giuridica, abbiamo una sfida: avere una leadership e una gestione capace di un doppio sguardo. Da un lato rivolto all’immediato, per migliorarlo, producendo contenuti appetibili a costi competitivi e dall’altro rivolto al futuro, per essere rilevanti e centrali nei prossimi anni».
E «perché non rimangano solo parole, abbiamo la responsabilità, con questo consiglio, di cambiare l’attuale assetto per metterlo al passo con i tempi. Il nuovo contratto di servizio 2023-27 rappresenta una grande opportunità, specie se collegata al nuovo piano industriale e, ci auguriamo, ai fondi del Pnrr: una triade importante e storica. Non si può investire nel nuovo e insieme lasciare intatto l’esistente: per questo dovremo compiere scelte, magari difficili, impopolari, ma non vedo alternativa. Il servizio pubblico è tale se parla a tutti i cittadini, non solo a un pubblico più che maturo, come oggi».
L’obiettivo è «rendere appetibili e disponibili i nostri contenuti lì dove sono gli utenti. Tv e radio restano centrali ma in fruizione tendenzialmente sempre meno lineare, senza un palinsesto prestabilito, sempre di più su smart tv. Sette milioni e mezzo di italiani guardano la tv tradizionale su internet, in aumento del 25% nell’ultimo anno».
Ma «ciò che ha reso vincente l’azienda nel passato: stabilità, avversione al rischio e gerarchia, oggi la mette in pericolo: serve agilità, flessibilità, capacità di innovare. Per quanto particolare e straordinaria e diversa da tutte le media company italiane, la Rai, il servizio pubblico, resta comunque un’azienda, non un ministero. E non può, non deve dimenticare di confrontarsi con il mercato». Quindi? «È evidente che tutto ciò significa riallocare le risorse, distribuendole diversamente tra offerta tradizionale e offerta digitale. Ma c’è bisogno di un cambio di atteggiamento, di cultura, di competenze. E bisogna anche scegliere bene su quali dati prendere poi decisioni: non crogiolarsi nelle celebrazioni di ciò che è stato».
La presidente spiega che «la trasformazione in servizio multimediale digitale e multipiattaforma non è rinviabile In questo ambito in azienda già si trovano eccellenze: RaiPlay, che sta riuscendo a conquistare i 15-24enni, ormai rappresentano quasi un quarto – il 23% —–del suo pubblico. Oppure il Crits di Torino – il più grande centro di Ricerca e sviluppo in Europa dopo la Bbc!».
Ora, aggiunge, «noi dobbiamo fare molto di più. Il nuovo modello organizzativo approvato all’unanimità lo dice chiaro: vanno fornite ai lavoratori nuove abilità e competenze, nuove piattaforme. Da reti lineari con potere e budget, a generi di contenuti da modulare a seconda del mezzo e dunque del target da raggiungere. Dovremo usare algoritmi creati con l’etica del servizio pubblico, un’etica che è ricchezza e tratto distintivo e che useremo anche quando in futuro saremo nel metaverso…».
Certo, «cambiare non è facile per nessuno. L’editore della Rai, per legge, è il Parlamento, tramite la Commissione di vigilanza per l’indirizzo e controllo. L’attenzione della politica sulle sue vicende è costante. Ma non si deve temere un ridimensionamento dell’informazione territoriale», dice dopo l’annuncio del taglio di alcune sedi regionali dei tg. «Anzi, Roma è anche troppo centrale negli equilibri di potere dell’azienda. Decentralizzare è un buon modo per ascoltare meglio dove va il mondo e il mercato, mettere a frutto competenze e potenzialità del territorio. Si deve uscire dalla nostra stessa echo chamber, dove ci si parla solo tra chi è d’accordo».
E sulle nomine che hanno fatto infuriare i Cinque Stelle, conclude: «Con le ultime nomine abbiamo portato al vertice dell’informazione ottimi professionisti, tra cui tre donne. La questione femminile per me è questione di merito, più che di genere. Ma la gender equality ancora non è realtà, nel Paese, prima di tutto. In linea con la strategia nazionale, la Rai dunque può fare moltissimo per la parità di genere, con la sua programmazione e nella gestione aziendale. Se vogliamo essere rilevanti, inclusivi, sostenibili e credibili, dobbiamo iniziare a esserlo al nostro interno».