Il ritorno a casaPatrick Zaki ringrazia l’Italia che ha «tenuto accesa la luce» su di lui

Il ricercatore egiziano dell’Università di Bologna è tornato in libertà dopo 670 giorni di detenzione, ma le accuse a suo carico non sono cadute e il giudice ha fissato un’udienza all’inizio di febbraio. E ora spera di tornare presto a frequentare il master che stava seguendo al momento dell’arresto

(EIPR via AP)

«Sono ancora un po’ confuso, tutto sta andando velocemente. Ma ora sono felice, sono qui con la mia famiglia, con tutte le persone che amo. Tutto qui». Lo dice in un’intervista al Corriere Patrick Zaki, il ricercatore egiziano dell’Università di Bologna tornato in libertà dopo 670 giorni di detenzione.

«Non mi hanno annunciato che sarei stato rilasciato», racconta. «All’improvviso mi hanno portato al commissariato, e hanno iniziato a prendermi le impronte. Non capivo cosa stesse succedendo, non c’erano segnali che mi stessero per scarcerare. Ero confuso. Non posso dire tutti i dettagli e preferisco non parlare delle condizioni di detenzione. Ma poi ho capito che c’era una speranza. È la speranza, sai, la cosa più difficile da tenere in vita quando ti tolgono la libertà».

Patrick ora è libero, ma le accuse a suo carico non sono cadute e il giudice ha fissato un’udienza all’inizio di febbraio. L’accusa di cui deve rispondere è diffusione di notizie false e dannose per lo Stato egiziano, per la quale rischia fino a cinque anni di carcere. Poi, ancora sospeso, c’è un secondo provvedimento, con l’accusa di associazione terroristica, reato che l’Egitto imputa oggi a migliaia di detenuti politici. In questo caso, la pena va fino a 12 anni.

Ad aspettarlo fuori dal commissariato di Mansoura c’erano la sorella Marise, la fidanzata, un’amica, la mamma e il papà. Insieme allo staff della Eipr, l’Egyptian Initiative for Personal Rights, un’organizzazione non governativa egiziana per la difesa dei diritti umani.

«Una delle cose che più ti fa soffrire quando sei in carcere è il pensiero del dolore che provochi alle persone cui vuoi bene», dice Zaki. «Io devo solo dire grazie, grazie all’Italia per essere stata vicina a me e alla mia famiglia. Grazie a tutti quelli che hanno tenuto accesa la luce. E l’elenco è lunghissimo». Ci sono «gli amici in ogni parte del mondo, che si sono dati da fare per me. Ma anche la vostra delegazione diplomatica che è venuta alle udienze. Poi l’università di Bologna. Tutti i compagni di master, ma in particolare c’è una persona».

E questa persona che Zaki ringrazia è «la professoressa Rita Monticelli. È la mia mentore al master Gemma a Bologna (quando Patrick è stato arrestato nel 2020 stava frequentando il primo semestre, ndr). Una persona che mi ha trattato come un figlio. E non mi ha trasmesso solo conoscenza ma anche valori. L’empatia, il rispetto. E l’ascolto. E poi mia sorella Marise. Ma sicuramente così faccio arrabbiare qualcuno, mi fermo qui».

L’Italia si è adoperata per il rilascio a più livelli. «Vedere in aula i vostri rappresentanti diplomatici durante le udienze mi ha dato forza», dice. «E sono sicuro che ci sono decine e decine di altre persone cui dovrò stringere la mano». E aggiunge: «Non dimenticherò mai tutte le volte in cui durante le visite mi venivano raccontato delle manifestazioni, delle piazze. E di tutte le iniziative organizzate per chiedere il mio rilascio in questi quasi due anni».

Alla senatrice Liliana Segre che ha votato per la richiesta di cittadinanza dicendo di essere idealmente come sua nonna, risponde: «Mi ha riempito di orgoglio sapere che una persona del suo livello e della sua statura morale si sia interessata a me. Voglio conoscerla. Assolutamente. Spero che questo avvenga quanto prima».

E spera di tornare «presto» in Italia. «Non so se ci sia un’interdizione per viaggiare all’estero. Per ora so che posso tornare al Cairo». E spera di poter riprendere il master in studi di parità di genere dell’Università di Bologna che stava seguendo al momento dell’arresto e che non è riuscito a finire: «Spero davvero presto. Il prima possibile. Non vedo l’ora di poter riabbracciare i miei compagni, i miei professori».

E poi, aggiunge, «c’è un posto dove vorrei andare prima o poi, in Italia», Napoli. «Non ci sono mai stato. La mia bisnonna Adel veniva da Napoli. Non parlo così bene l’italiano, ma l’accento di quella parte del Paese mi ha sempre affascinato. Amo molto gli autori napoletani».

In carcere ha letto «Dostoevskij, Saramago. E poi L’amica geniale di Elena Ferrante. Il mio preferito, forse. I libri dell’Università invece erano più complicati da avere. Ho provato anche a scrivere qualche volta ma non sempre mi era permesso tenere il blocco».

Il Corriere lo scorso 20 novembre lo ha insignito del premio alla memoria di Maria Grazia Cutuli, l’inviata uccisa in Afghanistan nel 2001. Lui dice:  «Questo premio significa tanto per me. Non lo merito, ci sono eroi là fuori che combattono, in Egitto, più di me, molto più di me. Ma è un premio per cui ringrazio di cuore, Maria Grazia è molto molto importante per me, e questo riconoscimento rappresenta un grande sostegno che ho ricevuto dal Corriere, come istituzione. E presto spero di scrivere i miei diari, quello che ho passato, sul Corriere. Aspettatemi!»

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