La corsettaI leader politici sono incapaci di trovare un nome per il Quirinale ma gareggiano tra loro per il ruolo di kingmaker

Nessuno ha davvero in mente una personalità in grado di succedere a Sergio Mattarella, e chi potrebbe averla per ora evita di bruciarla. Quindi continua il teatro, tra fughe in avanti e veti incrociati

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Dietro la corsa al Quirinale c’è anche una “corsetta”: quella a fare il kingmaker. Che è come aggiudicarsi la statuetta per il miglior attore non protagonista mentre l’Oscar più prestigioso andrà ovviamente al successore di Sergio Mattarella. Sembra che tutti i leader, mezzi leader, simil-leader vogliano ritagliarsi uno spazio per la Storia, per poter dire a Capodanno dell’anno prossimo ai nipotini: ragazzi quel presidente l’ho inventato io.

In attesa che parta la corsa vera (dovrebbe essere il 24 o il 26 gennaio, ieri Roberto Fico, per guadagnarsi un titoletto, ha detto che annuncerà la data il 4), è in pieno svolgimento questa strana “corsetta” per aggiudicarsi il ruolo del regista delle operazioni, il cervello della banda, il numero 10 dei grandi elettori, appunto, il kingmaker, che nella puntata precedente fu svolto da Matteo Renzi, che ama interpretare questa parte per far vedere che è il più scaltro di tutti. 

Sette anni fa, come si ricorderà, fu l’allora segretario del Pd a tirare fuori il nome prestigioso e sin lì nascosto di Mattarella tagliando la strada a D’Alema e Berlusconi che già erano sintonizzati sul nome di Giuliano Amato. La volta precedente c’era stato il pasticciaccio sul nome di Romano Prodi con i 101 franchi tiratori, un disastro firmato Bersani, e il kingmaker di Giorgio Napolitano fu la Politica, accorsa da lui, che era Presidente della Repubblica in carica, per chiedergli in ginocchio, dopo il grosso guaio dem, un bis per cavare d’impaccio un Parlamento ridicolo. 

Nel 1999 di Carlo Azeglio Ciampi, il kingmaker fu Walter Veltroni, allora segretario del Pd, che grazie all’intesa con Fini e Casini, mise in un angolo il solito D’Alema che avrebbe desiderato un esponente del partito popolare, Rosa Russo Iervolino o Franco Marini, e prima ancora – siamo al terribile 1992 – fu Marco Pannella (e un po’ anche Achille Occhetto, leader del Pds) a tirare fuori dal cilindro il nome di Oscar Luigi Scalfaro; e sette anni prima, per chiudere, i kingmaker di Francesco Cossiga furono Ciriaco De Mita e Alessandro Natta, segretari di Dc e Pci.

Scorrendo questo rapido elenco balza agli occhi che il leader del maggiore partito della sinistra (Pci, Pds, Ds, Pd) ha sempre avuto il ruolo di kingmaker o quantomeno di co-kingmaker. Questo può spiegare l’ansia di Enrico Letta di non sfigurare dinanzi ai suoi predecessori: fin qui, il segretario del Pd ha giustamente evitato di esporsi, salvo la capatina ad Atreju, la festa di Giorgia Meloni, dove, appena andato via, si è beccato gli insulti della padrona di casa stoltamente accreditata come centrale nella elezione del nuovo Capo dello Stato. 

Letta da una parte vorrebbe in qualche modo guidare le danze temendo di essere battuto in velocità dal detestato Renzi, il quale, a quanto si giura nel suo ambiente, ha già tutto in testa; ma dall’altra parte sa di dover stare molto attento se non vuole bruciare qualche nome per eccesso di fretta. È insomma chiaro che l’infinito braccio di ferro tra i due avrà un altro banco di prova nell’accreditarsi come il grande regista dell’operazione Quirinale. Ed entrambi, più Letta che Renzi, si giocano parecchio della loro credibilità. 

Dall’altra parte del campo politico non va molto diversamente. Anche qui c’è competition per fare il numero 10. Appena la Meloni si era conquistata una centralità mediatica – esclusivamente mediatica, giacché i suoi numeri parlamentari sono quelli che sono – ecco che l’invidioso Matteo Salvini, negli ultimi tempi piuttosto inebetito, si è inventato sue “consultazioni” telefonando a questo e a quello, probabilmente disturbando tutti, non si capisce per dirgli cosa. 

Salvini kingmaker sembra un film di fantascienza, stante il fatto che egli non ha la più pallida idea di cosa fare, a parte assecondare, per ora, il sogno proibito di Silvio Berlusconi. La verità è che a destra si stanno incartando. Se il Cavaliere salta, che farà Salvini, che farà la Meloni? E se metteranno il veto su qualunque personalità che provenga in qualche modo dalla sinistra (questo ci pare voglia dire “patriota”) loro ce l’hanno una seconda scelta? Lo stesso Berlusconi non sembra adatto per il ruolo di kingmaker: volendo essere l’attore protagonista, è difficile che una volta bruciato possa indossare i panni del comprimario e di Giorgia si è detto: non ha proprio le physique du rôle per questa parte. 

In teoria, chi è assiso in una buona postazione per fare il kingmaker è Giuseppe Conte. Ha il più importante numero di parlamentari, il M5s occupa una funzione che non è né di sinistra né di destra. È vero che lui personalmente non è un grande elettore, anche perché ha messo gambe in spalle fuggendo dal collegio di Roma Centro per paura di perdere contro Carlo Calenda, ma è pur sempre il leader del Movimemto, perbacco. In una corsa in cui tutto è possibile e anzi come dice Ivan Karamazov «tutto è permesso» una delle poche cose da escludere è che l’avvocato del popolo avrà un ruolo importante, un po’ per l’assoluto sfarinamento anche intellettuale dei suoi gruppi parlamentari un po’ per la sua, diciamo così, mancanza di quelle qualità che servono in questi casi: esperienza, intuito, senso dello Stato.

E dunque, il paradosso di questi giorni è che tutti vogliono fare i registi dell’operazione ma senza avere un’idea in testa. Per ora gli basta far finta di averne, quel poco che basta per fare il numero 10 del Parlamento.