Stretto nella tenaglia Meloni-Berlusconi, il leader della Lega Matteo Salvini sembra quasi sparito dalla scena politica italiana, se non fosse per i soliti 20 secondi che i telegiornali gli assegnano a prescindere dalla rilevanza delle cose che dice: d’altronde la legge del pastone non perdona, e se ogni benedetta sera passano Federico Fornaro (LeU) o Maurizio Lupi (Noi con l’Italia) è normale che la cosa valga per tutti.
Ma andando alla sostanza politica, diremmo che è la prima volta da anni che Salvini è vittima di una doppia egemonia: di Berlusconi in relazione alla partita del Quirinale nella quale quest’ultimo appare il dominus della destra, essendo virtualmente candidato e disponendo meno virtualmente di un bel po’ di voti a sostegno; e di Giorgia Meloni che gli ha platealmente sottratto da sotto le terga la sedia su cui era seduto, quella del nazionalismo-sovranismo.
Lo slogan salviniano «prima gli italiani» è stato alla base del grande successo anche a livello popolare che Salvini riscosse all’epoca del Conte I, quando da ministro dell’Interno lanciò la più tosta campagna anti-immigrati della storia recente del Paese. E «prima gli italiani» era diventata la parola d’ordine buona per tutto, dalla guerra agli immigrati nelle periferie a quella, complementare, della giustizia fai-da-te (l’omicidio di Voghera del giovane marocchino, Youns El Bossettaoui per mano di un assessore leghista ne fu il più scandaloso e tragico simbolo).
Adesso invece è lei, Giorgia, a rispolverare il suo nazionalismo dal sapore ancora più rancido, perché vetusto, grazie a questa cialtroneria del Presidente «patriota», già ridicolizzata dal direttore di questo giornale e dunque in sé non meritevole qui di ulteriori considerazioni. Se non, appunto, la sottolineatura dell’ennesimo sgambetto che la Meloni ha fatto al suo alleato Salvini, strappandogli dal petto una delle ultime catenine che l’ex ministro indossava e battendolo in velocità e anche efficacia comunicativa sul terreno del cosiddetto patriottismo, dell’odio per l’Europa e per il Paese che dell’Europa oggi ha nelle mani le sorti, cioè la Francia.
Salvini non può vantare un retroterra, diciamo così, culturale e ideologico, non ce l’ha con la Francia piuttosto che con la Germania, non è in grado di fare distinzioni particolari tra un Paese e un altro: per lui la cattiva è Bruxelles, punto. Mentre invece la Meloni ha inalato fin da piccola l’odio dei reazionari e dei fascisti per la Francia dei Lumi, della libertà, dell’uguaglianza e dell’accoglienza che tra cadute e riprese ha retto sin qui da 240 anni: ecco spiegato il sensi del comizio di piazza Risorgimento, ad Atreju, contro Emmanuel Macron, il liberale e progressista che dall’Eliseo deve fronteggiare l’ennesimo assalto para-fascista alle presidenziali di aprile (al netto dell’incognita gollista di Valérie Pécresse) e contro Enrico Letta, sbeffeggiato volgarmente e immotivatamente come «il Casalino di Macron».
Fanno abbastanza pena, ma sono bordate politiche che oscurano il capo della Lega, il quale se ne sta lì un po’ inebetito, forse rabbioso per la ritrovata centralità mediatica della Meloni. A pensarci bene, l’ultima occasione in cui si è parlato molto di Salvini non era esattamente edificante trattandosi della nota vicenda del suo braccio destro Luca Morisi, peraltro molto ingigantita e di scarsa rilevanza politica, e poi più nulla di importante.
Le ultime sortite del Capitano, o ex Capitano, hanno riguardato le solite tiritere sul taglio delle tasse, sul caro-bollette, tutte cose ovvie, espresse con burocratica vaghezza: ma ciccia politica, zero. Adesso si è inventato un tavolo dei leader (l’ultimo che lo aveva proposto era stato Letta e non se ne fece nulla) per affrontare, nientemeno, la questione del Quirinale, come se questo fosse un normale punto all’ordine del giorno e non un crocevia fondamentale che si affronta in ogni modo tranne che con una riunione di tutti i partiti.
Le recenti uscite di Giorgia-sono-italiana sono per il capo della Lega colpi martellanti che lasciano il segno e fanno risaltare l’esaurimento della spinta propulsiva del salvinismo arrembante, quello che in coppia con Giuseppe Conte ha corroso per un po’ di tempo la democrazia italiana: tempi lontani che probabilmente non torneranno più. Anche per colpa della carissima e patriottica alleata.