Come tutti i settori, anche il calcio è soggetto alle modernizzazioni e gli stadi ne rappresentano certamente uno dei principali benchmark. Tuttavia, a differenza degli altri settori dell’economia, il calcio si costituisce attraverso due peculiarità: innanzitutto la leadership non è del più ricco, ma di quello che vince sul campo e – in secondo luogo – l’appartenenza calcistica non si focalizza esclusivamente sulla razionalità delle procedure necessarie a raggiungere gli obiettivi, ma contiene anche ambiti che hanno a che fare con il sacro e quindi con l’irrazionale.
Alla luce di queste considerazioni, la prospettiva di abbattere San Siro può essere vista in una luce differente da quella che la considera come una inevitabile conseguenza della modernizzazione calcistica.
Prima di continuare il discorso, però, va contestualizzata una premessa economica: gli attuali bilanci di Milan e Inter (anche a prescindere dalla questione plusvalenze) ci dicono che – a causa di un mismanagement che affonda le proprie radici molto lontano negli anni – i due club sono ormai aziende gravate da indebitamenti significativamente superiori ai fatturati e perdite in conto economico tali da collocarle in piena zona tecnica di fallimento. Per esprimerci coi numeri, l’Inter ha chiuso l’ultimo bilancio con una perdita di 245 milioni a fronte di 365 milioni di ricavi, mentre il Milan ha perso 96 milioni con un fatturato pari a 261 milioni.
Situazioni economiche di questo tipo non possono che imporre ai club strategie radicalmente diverse dal passato. Non è un caso che entrambe le squadre milanesi fossero parte del progetto Superlega che avrebbe permesso di riportare, attraverso un forte aumento dei ricavi, i bilanci su una linea di sostenibilità. Tuttavia, almeno momentaneamente questa ipotesi calcistica sembra svanita e quindi la strategia dei club si è spostata fuori dal calcio, puntando a una valorizzazione patrimoniale derivante dalla prospettiva di incamerare diritti immobiliari grazie al sacrificio di San Siro.
Probabilmente, il progetto possiede una razionalità economica complessiva, ma la sua debolezza risiede nello scontrarsi con uno degli ambiti sacri del calcio: abbattere un tempio, per una comunità di fede, non solo è improponibile, ma apparirebbe addirittura funesto. D’altronde, è facile immaginare come la demolizione di San Siro diverrebbe rapidamente lo spettacolo di una catastrofe sia agli occhi innamorati dei tifosi, ma anche sotto altri punti di vista: l’impatto ambientale sarebbe devastante (la logistica della distruzione e della rimozione è del tutto incompatibile con la fisiologia del territorio) e l’attuale ranking di eccellenza del Meazza renderebbe l’operazione palesemente illogica.
Purtroppo, l’Amministrazione Comunale (come già ebbe avuto modo di dimostrare con l’avallo a un’ipotesi dello stadio del Milan nell’angusto spazio di via Gattamelata) non sembra voler entrare nel merito complessivo della questione dello stadio. L’atteggiamento pilatesco di Palazzo Marino, probabilmente, intende spostare la palla sui tribunali amministrativi o su un eventuale referendum cittadino. Resta un fatto che l’assenza di un serio dibattito sulla questione non aiuta nemmeno i due club, le cui proprietà cinesi e statunitensi (due paesi che non conoscono la significatività del sentimento calcistico in Italia) si trovano tra le mani una bomba a orologeria che più passa il tempo e più rischia di esplodere.
Malauguratamente, non c’è più un Gianni Brera a sottolineare come i peccati di presunzione, nel calcio, rischino di andare incontro agli strali della Dea Eupalla. Tutti i milanesi, dal tifoso al semplice osservatore, percepirebbero la demolizione di San Siro come una profanazione di qualcosa che ha più a che fare con la dimensione spirituale che con l’economia del calcio. Insomma, è complesso da spiegare, ma la conclusione è che San Siro non va abbattuto.
Attualmente, la scelta più sensata per i due club è ancora quella di contribuire a rimettere in moto (eventualmente con una regia mondiale della FIFA) una Superlega che permetta ai grandi (e indebitatissimi) club globali di fuoriuscire dalle filiere calcistiche tradizionali per approdare a una dimensione hollywoodiana più vicina allo showbiz che alla passione per il calcio.
Fuori da questa ipotesi, la prospettiva più probabile, alla luce dei dati di bilancio, è quella del fallimento. Ma attenzione, nel calcio il fallimento di un club è un fatto molto frequente che non ha mai come conseguenza il venir meno della tradizione calcistica. Sono fallite la Fiorentina, il Napoli, il Parma, il Bari, il Bologna e oltre 100 club tra Serie B e Serie C: ogni squadra, tuttavia, è immediatamente risorta dalle proprie ceneri semplicemente attraversando un breve purgatorio nelle categorie inferiori. Quindi – anche se dirlo appare piuttosto roboante – se l’Inter e il Milan fallissero cambierebbe poco, poiché non scomparirebbero né l’attività delle squadre, né la passione dei tifosi.
Tuttavia, tra l’ipotesi della Superlega e quella del fallimento si pone anche una terza strada – tanto nobile quanto impervia – che è quella di un risanamento economico che metta in conto, tra ripagamento del debito e azzeramento del deficit, almeno 300 milioni di risparmi annui per l’Inter e 200 milioni per il Milan. Il management calcistico italiano (a esclusione del caso di Lotito alla Lazio) non ha mai dimostrato di essere in grado di risanare i conti di un club, soprattutto per la difficoltà di reggere alla pressione dei tifosi e dei media. La strada del fallimento si è sempre dimostrata come la più semplice.
Nonostante ciò, se a Milano i due club si incamminassero su una strada di risanamento economico lacrime e sangue, probabilmente potrebbero anche contare sulla comprensione e sull’apprezzamento dei tifosi veri. Una linea di rigore economico, infatti, rafforzerebbe l’identità dei club e il valore della maglia, allontanandosi dalla logica avida e venale che si è fatta egemone nella degenerazione mercenaria del calcio. Se le due proprietà straniere si impegnassero in questo tentativo, oltre a contribuire a una bonifica del calcio, si guadagnerebbero anche la patente di milanesità fornita da un arguto detto meneghino: al var pùuse ciapàn pòcc e spendan minga, che ciapàn tanti e spendan pùuse (vale di più incassare poco e spendere niente che incassare tanto e spendere di più).
Alessandro Aleotti è presidente del Brera Calcio