Nella giornata di ieri, contrariamente alla lagnosa narrazione prevalente, si sono confrontate due opposte prospettive politiche, sulla presidenza della Repubblica e sul futuro del nostro sistema politico: quella implicita nella candidatura di Maria Elisabetta Alberti Casellati, che ha raccolto 382 voti, partendo sulla carta dai 453 voti del centrodestra, e quella implicita nei 336 voti ricevuti da Sergio Mattarella, partendo sulla carta da zero, non essendo stato candidato da nessuno. Vedremo che esito avrà la candidatura di Elisabetta Belloni (ri)annunciata a sorpresa ieri sera, proprio mentre i grandi elettori mettevano nell’urna centinaia di voti per Mattarella. Ma l’impressione è che si tratti del secondo tentativo di ricostituire l’asse gialloverde, allargato a Fratelli d’Italia, che aveva già portato Casellati alla presidenza del Senato, e negli auspici dei promotori avrebbe dovuto portarla anche al Quirinale.
Si può discutere di quale sia la giusta interpretazione del clamoroso esito rappresentato dai voti per il capo dello stato (forse) uscente. Non si può invece dubitare di quale sia il significato del risultato non meno clamoroso – ma in senso opposto – ottenuto dalla presidente del Senato.
Intendiamoci, prendersela solo con Matteo Salvini sarebbe ingiusto, perché a spingerlo a presentare una candidatura di centrodestra in aperta sfida a metà del Parlamento, con approccio tipicamente bipolarista-maggioritario, è stata anzitutto Giorgia Meloni.
Il fallimento clamoroso dell’operazione è il fallimento di quell’approccio, sommamente improprio quando si tratta di un’istituzione di garanzia, anzi, della massima istituzione di garanzia. Del resto, questo è il modo in cui il centrodestra, in asse con il Movimento 5 stelle, aveva già escluso il centrosinistra da tutte le cariche di garanzia e controllo, all’inizio di questa folle e pericolosa legislatura, a cominciare, per l’appunto, dai presidenti di Camera e Senato. E il tentativo di riprovarci con la candidatura Belloni, cercando di coprire il vero significato dell’operazione, ancora una volta, con la retorica della prima donna al Quirinale, come hanno fatto tanto Beppe Grillo quanto Giorgia Meloni, dimostra che i nomi – e le donne – possono cambiare, perché sono fungibili. L’operazione resta.
Sommate a tutto questo l’effetto del taglio populista dei parlamentari e di una legge elettorale maggioritaria sulla composizione del prossimo parlamento e avrete la misura del rischio cui siamo ancora esposti, nel pieno di una pandemia e con tutte le fragilità strutturali che ci portiamo dietro, a partire dal debito pubblico. Una bomba a orologeria che solo il governo di Mario Draghi ci ha permesso, finora, e miracolosamente, di disinnescare, motivo per cui da queste parti siamo convinti che Draghi dovrebbe restare a Palazzo Chigi. E per cui saremmo ben felici restasse al suo posto anche Mattarella.
Ma quali che siano le decisioni del capo dello stato (forse) uscente, sembra difficile non leggere in quei 336 voti per lui l’opzione diametralmente opposta a quella rappresentata dalla candidatura Casellati (e poi Belloni). Chiunque sia a farsene interprete dal Quirinale – Pier Ferdinando Casini, lo stesso Mattarella o un altro – il mandato è chiaro. Ed è una grande occasione per ricostruire un sistema politico razionale, con una vera legge proporzionale che ci faccia uscire dalla paralizzante isteria del manicheismo bipopulista.