Hollywood ha sempre avuto una fascinazione per le storie di spionaggio. Servizi di intelligence, agenti segreti, trame intricate che possono diventare tanto un rompicapo quanto una sparatoria da Far West: la resa di questi film è spesso di grande impatto e può creare saghe destinate a plasmare l’immaginario collettivo.
Il James Bond raccontato da Ian Fleming nei suoi romanzi ha regalato al cinema alcune delle interpretazioni più iconiche, da Roger Moore e Sean Connery fino a Daniel Craig. Ma poi sono arrivati i vari Jason Bourne, Jack Ryan e tanti altri nomi. Anzi, si può anche uscire dal perimetro cinematografico e trovare successi come la serie tv “24”, le opere di Tom Clancy e i casi da risolvere in “X-Files”.
La cultura pop sta definendo ciò che le persone sanno dei servizi di intelligence e delle principali agenzie, soprattutto quelle americane che si vedono più spesso al cinema e in tv. E ovviamente cambia la considerazione che le persone hanno di queste istituzioni.
Nel suo libro “Spies, Lies, and Algorithms: The History and Future of American Intelligence” (Spie, bugie e algoritmi: la storia e il futuro dell’intelligence americana), Amy Zegart sottolinea che la presenza – spesso anche abusata – di Cia, Fbi e altre istituzioni nella cultura pop sta creando più di un equivoco.
«Qualunque cosa si pensi delle attività di queste agenzie, siano esse efficaci o inefficaci, moralmente giuste o moralmente sbagliate, il fatto che la narrazione che si crea possa influenzare in modo significativo gli atteggiamenti pubblici nei loro confronti è sconvolgente», si legge nel libro, di cui l’Atlantic ha pubblicato un lungo estratto.
L’autrice ha condotto diversi studi sul rapporto tra cittadini e agenzie di spionaggio, e spiega che la conoscenza dell’intelligence da parte degli americani è piuttosto scarsa, almeno rispetto a come funzionano realmente questi servizi.
La maggior parte degli americani, scrive Zegart partendo dai risultati di indagini demoscopiche, non sapeva chi fosse il direttore dell’intelligence nazionale, e spesso gli spettatori che guardano programmi tv e film a tema di spionaggio sono favorevoli a tattiche aggressive di antiterrorismo, come il waterboarding. Inoltre, più le persone guardano programmi televisivi e film di spionaggio, più apprezzano la National Security Agency – l’agenzia di sicurezza nazionale.
«Sappiamo che l’intrattenimento ha influenzato la cultura e gli atteggiamenti popolari su tanti argomenti», si legge nell’estratto. Ad esempio “Top Gun”, il film del 1986, fu una manna per il reclutamento della Marina, convincendo molte persone ad arruolarsi. Al punto che spesso c’erano funzionari della marina appostati fuori ai cinema di tutti gli Stati Uniti. Ed è capitato, magari in proporzioni diverse, anche con i film che avevano per protagonisti artisti, avvocati o altri personaggi particolarmente amati dal pubblico che spingevano all’emulazione. Ma con i servizi d’intelligence è un po’ diverso, considerata la complessità di queste agenzie.
«Le vere spie hanno sempre avuto una relazione complicata con quelle di fantasia. Da un lato, le agenzie di intelligence corteggiano Hollywood da decenni nella speranza di ottenere ritratti favorevoli. D’altra parte, ne denunciano le rappresentazioni negative e irrealistiche che spesso vengono fatte», scrive Amy Zegart.
Al cinema è stato spesso rappresentato J. Edgar Hoover, figura sui generis che ha presieduto l’Fbi dal 1924 al 1972. Un’istituzione nell’istituzione. Ecco, Hoover è stato uno di quelli che ha promosso più di tutti la sua agenzia nell’industria dell’intrattenimento: era una macchina per le pubbliche relazioni, che collaborava solo con produttori e giornalisti che ritraevano il Bureau in una luce positiva.
Negli anni ’30 c’erano programmi radiofonici esclusivamente a tema Fbi, e poi fumetti, gomme da masticare e soprattutto film con la sigla del Bureau. Questi film hanno glorificato gli agenti dell’Fbi come eroi intrepidi, gente che, armi in mano, poteva risolvere qualunque crimine.
Oggi Fbi, Cia e Dipartimento della Difesa hanno tutti uffici strutturati di pubbliche relazioni, o contatti nell’industria dell’intrattenimento che lavorano dietro le quinte con scrittori, registi e produttori di Hollywood per cercare di convincerli a ritrarre favorevolmente le loro organizzazioni.
Ma non va sempre bene. A volte la rappresentazione suscita un sentimento negativo nel pubblico, come nel caso di “Zero Dark Thirty” – film candidato all’Oscar che racconta i 10 anni di caccia a Osama bin Laden da parte della Cia –, allora la reazione è ben diversa.
Quando il film è uscito nelle sale ha generato così tante polemiche su cosa fosse reale e cosa no, che l’allora direttore della Cia, Michael Morell, ha dovuto diffondere un comunicato per chiarire i fatti. «Il film crea la forte impressione che le nostre vecchie tecniche di interrogatorio, non più in uso, fossero l’unica chiave per trovare Bin Laden. Questa impressione è falsa», ha detto Morell.
La proliferazione dello spionaggio nella cultura pop genera problemi di natura politica, secondo Amy Zegart. Il primo di questi è che ora le agenzie di intelligence appaiono, agli occhi dei comuni cittadini, molto più potenti, capaci e irresponsabili di quanto non siano in realtà. Una degenerazione di questo punto porta a credere che le agenzie di intelligence siano onnipotenti, cosa che ha alimentato le teorie del complotto sul Deep State e su un governo nascosto che muove i fili.
«Le teorie del complotto possono essere un grande divertimento, ma sono anche sostenute da un numero sempre maggiore di americani», si legge sull’Atlantic.
Dopotutto, dietro molte teorie del complotto si nasconde, in un modo o nell’altro, la convinzione che le agenzie di intelligence siano troppo sviluppate, troppo potenti, troppo segrete e si spingano troppo lontano, per poter davvero commettere errori. Sarebbero praticamente infallibili e avrebbero sempre tutto sotto controllo. Di conseguenza ogni grande avvenimento spiacevole, su scala nazionale, sarebbe per forza di cose frutto di una macchinazione.
«Non intendo suggerire che le agenzie di intelligence e i funzionari non oltrepassino mai il confine della legalità, che non ottengano informazioni riservate dal Congresso o che non si impegnino in attività discutibili. Lo fanno. E a volte anche i programmi considerati legali, come gli attacchi dei droni della Cia, sollevano questioni inquietanti relative alla dimensione etica. Ma il fascino delle teorie del complotto e del pensiero del Deep State solleva soprattutto seri interrogativi su come le agenzie di intelligence saranno in grado di svolgere la loro missione in futuro se ampie fasce del pubblico le guarderanno con tale sospetto», scrive Zegart.
Finché i cittadini credono che le agenzie di intelligence possano rintracciare chiunque, andare ovunque e fare qualsiasi cosa, nel bene e nel male, sarà sempre meno probabile che le vere criticità dell’intelligence vengano risolte, ed è invece più probabile che gli eccessi e i limiti proliferino.
«La maggior parte degli americani, inclusi membri del Congresso, funzionari di gabinetto e giudici che fanno politiche che influiscono sulla sicurezza nazionale – è la conclusione dell’articolo – non sanno molto del mondo segreto dell’intelligence. Il prezzo da pagare può essere molto alto. Le agenzie segrete nelle società democratiche non possono avere successo senza fiducia dei cittadini. E la fiducia richiede conoscenza. Come disse una volta l’ex direttore della Cia e della Nsa Michael Hayden, “il popolo americano deve fidarsi di noi e per fidarsi di noi deve sapere di noi”».