Fiona Apple “When the Pawn…”, 1999
Come accade a volte – ma qui più di altre – i dischi di Fiona Apple si possono ascoltare in due maniere. La prima – e questo vale soprattutto per chi non è di lingua madre inglese – è dal lato musicale. E da questo punto di vista colpisce la unicità del suono e degli arrangiamenti, uno stile cantautorale ricco, imprevedibile, ma soprattutto potente. Potente e intimo allo stesso tempo, anzi, perchè la dinamica, spesso all’interno di una stessa canzone, è straordinariamente varia: Fiona usa la voce e la batteria e il suo pianoforte come elementi di costruzione, e tutto il resto – strumenti, ma anche suoni, qualsiasi tipo di suoni, dal grattare il pavimento all’abbaiare dei cani – come ornamento, sottolineatura, quasi fossero dei !*§°#@! nella nuvoletta di un fumetto. La voce può bisbigliare o tuonare da un momento all’altro con la forza e l’aggressività che magari non ti aspetti, e questo è garanzia di una espressività che fa intravedere emozione, forti emozioni.
Le melodie sono pop, piacevolmente pop, ma la maniera di rivestirle e porgerle è veramente fuori del comune. Fin dall’inizio intuisci che c’è qualcosa di alternativo, di dannatamente originale, qualcosa di travolgente e selvaggio, violento e romantico, che si muove sotto la superficie. Se cerchi dei riferimenti o similitudini con altre donne lo fai a fatica. Anche se è stata inglobata in una pattuglia di ragazze che sul finire degli anni 90 ha impattato forte sulla scena americana (da Alanis Morrisette a Jewel, da Joan Osborne a Liz Phair), c’è qualcosa di più antico dentro, forse è quella sottintesa passione per una vena jazzata o per la musica pop americana di alto lignaggio della metà del secolo, Broadway e i musical e il cinema. Alla fine, a me viene in mente solo una Laura Nyro, ma di trent’anni dopo: la città di partenza è la stessa, New York, ma il mondo e i suoni a distanza di trent’anni son cambiati così tanto.
Guardi le sue foto, e quello che ti colpisce è un corpo minuto, praticamente costruito intorno a due occhi di profondo blu. Troppo piccolo per quella voce, pensi, ma poi rifletti che neanche la Callas era poco più che pelle e ossa, la voce evidentemente viene da dentro, senza curarsi della grandezza della cassa toracica. Guardi le foto, corrucciate, a occhi sgranati, sorridenti, strambe, espressive senza sforzarsi di apparirlo, e non puoi non chiederti quale mondo ci sia dietro.
Ecco, quale mondo. Entrare nel mondo di Fiona Apple è qualcosa di meno immediato, e sicuramente più complesso, che ascoltare la sua musica. Anche se poi capisci che una non potrebbe vivere senza l’altro. Che quelle interpretazioni intense, quelle scale improvvise, quelle svolte a 90° a metà strofa, quella batteria o i loop così in primo piano sono il modo in cui comunicare, sottolineare, quello che le parole non riescono a esprimere fino in fondo. Ecco, le parole…
Non si tratta solo di leggere i testi, ma anche la bio, e non solo. Perchè la sua irruzione sulla scena nel 1997, con il primo album, “Tidal”, è stato un caso mediatico, fatto di elogi, e vorrei vedere, ma anche di dismissioni, scherno, accuse di presunzione, narcisismo, accuse dure, eh, e quasi tutte maschili. Ok, i critici si fanno spesso prendere la mano, ma perchè vivisezionarla? (nelle canzoni già lo fa lei nei confronti dei suoi sentimenti), e perchè tutto questo livore? (nelle canzoni lei è già la prima critica di sé stessa). Allora sono tornato a leggermi i giornali di 20 anni fa, per capire perchè questa ragazzina così minuta avesse sollevato – e continuato a farlo, negli anni successivi – un pandemonio così grande.
E questa è la seconda maniera di ascoltare Fiona Apple, quella di provare a entrare – senza preconcetti – nel suo mondo. Complesso. E anche lacerato, contraddittorio, iperbolico, conflittuale, fatto di sentimenti violenti, spesso ossessivi. Un classico esempio di donna ferita se ce n’è uno. Un mondo personalissimo, e anche talentuosisssimo. Tutto declinato al superlativo. Esattamente come i suoi cinque album, di cui “When the Pawn…” è il secondo.
Fiona Apple nasce a New York nel ’77, figlia di un attore, Brandon Maggart, e di una cantante e danzatrice, Diane McAfee, che si sono incontrati sulle tavole di Broadway per il musical ’Applause’, versione musicale di ’Eva Contro Eva’. Si sposano e separano, la ragazza dal doppio nome e cognome cresce ad Harlem con la madre e la sorella, le estati in California dal padre. Studia pianoforte classico, scrive già a otto anni le sue prime canzoni, suona dietro i dischi delle sue preferite, Ella Fitzgerald e Billie Holiday, adora l’hip hop, che nell’upper west side, al confine di Harlem dove vive, è il suono onnipresente. Ma soprattutto si affida alla scrittura: da piccola, quando in famiglia si discute, per esprimersi e farsi capire, invece di farlo parlando «scrivevo una lettera che poi leggevo loro ad alta voce». Come se la scrittura potesse validare il suo pensiero in maniera più decisiva, «e poi me ne tornavo in camera».
A dodici anni viene stuprata nel corridoio di fronte al suo appartamento, e da quella ferita sviluppa un sindrome da stress post-traumatico che le crea un disordine ossessivo-compulsivo alimentare, diventa magrissima, come volesse evitare di sembrare una possibile preda sessuale. «Tutti pensavano fossi anoressica, ma ero solo depressa e auto-punitiva». Attacchi di panico tornando a casa la spingono a vivere dal padre a Los Angeles per un anno, ma dell’episodio dice: «Non entra nella scrittura, è un vecchio dolore del cazzo, non c’è nulla di poetico in sé».
Forse non entra nella scrittura, ma di certo la scrittura del suo primo album, “Tidal”, composto a 17 anni e pubblicato a 18, è un viaggio nel profondo di una psiche irrequieta, ferita, tortuosa e torturata, descritto con una narrativa a flash/strofe che è sincera come una confessione e tagliente come una lama. Credo nessuna cantautrice a quell’età si sia mai misurata con quella crudezza e vulnerabilità su temi così dolorosi e personali come – in estrema sintesi – l’impossibilità di amare. È la cronaca della fine del suo primo amore, vende tre milioni di copie trainato da un singolo, ’Criminal’, il cui video apre il ballo della debuttante. E non è una festa.
Il video è buio, un po’ claustrofobico, acerbamente sessuale, nel quale la ragazzina si aggira per una stanza in un clima da dopo-festa in mezzo a corpi maschili e femminili senza volto, con un’aria fra l’ammiccante e l’innocente mentre racconta del suo essere una bad girl in cerca di redenzione:
«Sono stata una bad, bad girl
Sono stata incurante con un uomo delicato
Ed è un mondo triste quello in cui
Una ragazza fa a pezzi un ragazzo solo perché può.
Non dirmi di negarlo
Ho sbagliato e voglio soffrire per i miei peccati
Son venuta da te in cerca di una guida per la verità
E non so da dove cominciare.
Quello che mi serve è una buona difesa
Perché mi sento come un criminale
E ho bisogno di essere redenta
Nei confronti di colui verso il quale ho peccato
Perché lui è tutto quello che so dell’amore».
Il clip, così ambiguamente esplicito («ma se devo essere sfruttata, preferisco sfruttarmi da sola»), per certi versi un errore (che non ripeterà più), la rende popolare (in heavy rotation su MTV in uno degli ultimi anni in cui, come è stato scritto, era rilevante) e attira le prime critiche feroci. Lei che aveva scritto una lettera, questa volta non ai genitori ma al pubblico, per essere capita, per mettere le mani avanti in un atto di auto-difesa – in ’Never Is A Promise’, dice apertamente: «Nessuno mi ascolterà mai» – si trova al contrario messa in discussione da subito, e con una certa virulenza. Quando poi il video di ’Sleep to Dream’ viene premiato agli MTV Awards, e lei sale sul palco, nervosa ma determinata, trofeo in mano e spara ad altezza d’uomo nei confronti del mondo dello showbiz: «This world is bullshit, questo è un mondo di merda, e voi non dovreste modellare la vostra vita su quello che voi pensate che noi pensiamo sia cool e come ci vestiamo e quello che diciamo e tutto il resto. Siate voi stessi», oltre ai fischi in sala le arriva addosso di tutto. Ma come si permette? Questa pretenziosa, ingrata, insopportabile ventenne?
Ma quel mondo, magari controvoglia, e i suoi fan, per la loro gioia, si dovranno abituare a quella ragazzina apparentemente fragile che non ha paura di esternare le sue emozioni, sia su disco che di persona. Il commento di una ragazza su YT sotto una sua (strepitosa) performance dal vivo di ’Criminal’, nella quale si rannicchia sotto il pianoforte e poi danza totalmente persa nella musica, riassume bene la sua fragilità e la sua forza: «Her dancing! Holy fuck, amo questa donna. Esprime tutte le sue emozioni e non le importa cosa la gente ne pensa».
A proposito delle critiche, generalmente maschili, su “Tidal”, Kristin Iversen su Nylon recentemente ha scritto: «È facile capire perché. Le canzoni parlano di amore e lussuria e innocenza e la perdita dell’innocenza, sono meravigliosa e appiccicose, come una ferita aperta; se le hai ascoltate quando anche tu eri una ferita aperta, se ti pressavi contro quella musica senza cicatrici che ti proteggessero, quelle canzoni ti rimanevano attaccate, finchè non diventavano una parte di te, come una seconda pelle, qualcosa in cui rifugiarti. La voce di Apple era bassa e cool e a volte più forte di quello che sembrasse possibile; si impennava in una maniera che sembrava impossibilmente alta, come le volte di una cattedrale di tanti secoli fa. Mentre le sue parole parlavano di peccato, la sua voce offriva un santuario. Queste erano le cose che conoscevi se eri una donna, o ancora una ragazza, e ascoltavi Fiona Apple. Erano le cose che sentivi. Ma non erano le cose di cui parlavano gli uomini che spiegavano Fiona Apple».
Nel febbraio ’97 è sulla copertina di SPIN, magazine rock americano, come rappresentante delle «ragazze rock» che hanno preso il potere «e prendono a calci in culo la pigra cultura pop». È una lunga intervista che si sposta fra il set fotografico con (il non-ancora-famigerato) Terry Richardson, il palco e il divano di casa, lei come sempre istintiva, sincera e poco diplomatica. Parla candidamente del suo stupro, «Ho avuto paura per molto tempo, ho preso lezioni di auto-difesa, e mi sono detta che dovevo lottare per tornare. Ho lottato per rimanere viva, ho lottato per questo, sottintendendo pro e contro della popolarità. Sono impressionata con me stessa per essere arrivata fin qua, ma non sono così impressionata del ’qua’. E colui che mi ha stuprato è molto più debole di me. Perché cosa ci vuole a far male a una ragazzina? Quanta più forza ci vuole a quella ragazzina per superarlo? Chi dei due pensi sia più forte?». E aggiunge: «È impossibile per me essere felice, psicologicamente e chimicamente. Per cui aiuterò qualche ragazzina là fuori. Le farò sapere che ho le smagliature sul culo, e che non sono del tutto a posto. Voglio dare a quella ragazza un po’ di speranza. Voglio che sappia che she doesn’t have to have her shit together. È ok se se non è del tutto a posto».
La risposta arriva nel numero seguente di SPIN, nelle lettere. Vetrioliche, la più gentile delle quali recita: «Oh, povera Fiona. Let’s all have a pity party, facciamo tutti un party di commiserazione». La sua risposta è come sempre affidata alla scrittura. Una poesia che diventa il titolo del suo album successivo:
«When the pawn hits the conflicts he thinks like a king
What he knows throws the blows when he goes to the fight
And he’ll win the whole thing ’fore he enters the ring
There’s no body to batter when your mind is your might
So when you go solo, you hold your own hand
And remember that depth is the greatest of heights
And if you know where you stand, then you know where to land
And if you fall it won’t matter, cuz you’ll know that you’re right».
Entra nel Guinness per il titolo più lungo mai fatto, 444 caratteri che, basta leggerla nel modo giusto, è un auto-incitamento ad andare avanti, ad essere superiore, «una pedina sulla scacchiera che in guerra diventa Re». Come ha poi detto: «Una cosa nata dall’esser stata presa in giro, che poi, naturalmente, è diventata una cosa per cui essere presa in giro». La copertina è rossa, in trasparenza il lunghissimo titolo e sotto, una (rara) foto di lei sorridente che guarda verso l’alto. Ma più che sorrisi qui c’è un altra immersione in sentimenti conflittuali, il vorrei ma non posso dell’avere una relazione normale, desideri e paure, la sensazione di conoscersi e che questo non porterà a nulla di buono – o forse sì?, ma è tutto da dimostrare.
L’entrata di piano e batteria di ’On The Bound’ sposta l’aria, la voce stentorea…
«Tutta la mia vita dipende da me, adesso
Saluta le pagine mentre girano
Il futuro è al limite, l’inferno non conosce la mia furia…».
…il seguito, dopo un nastro all’indietro beatlesiano, è ancora più potente, archi e chitarra distorta ed effetti, e rumori, un pastiche che sembra due o tre dischi diversi che procedono contemporaneamente. E poi si fermano di colpo.
L’album è un salto avanti rispetto al debutto, la produzione di Jon Brion lussuriosa (ma lui stesso ha detto che l’ha solo aiutata, che era già tutto nella sua testa), piena di soluzioni, le canzoni hanno quella incredibile capacità di creare tensione fino all’estremo, poi rilasciarla e riprenderla, di procedere con una logica finché un cambio di accordi o di ritmica sovvertono tutto e sparigliano la situazione. Ci sono contraddizioni, come possono non esserci contraddizioni quando si è ancora al capitolo due del capirci qualcosa della vita?, un gran fritto misto di accuse e scuse, vedi ’To Your Love:’
«Per favore perdonami per la mia distanza
Il dolore è evidente nella mia esistenza
La vergogna è manifesta nella mia resistenza
Al tuo amore, al tuo amore».
’Limp’ è forse la più arrabbiata di tutte, un assolo scardinato di batteria al centro della canzone (quando mai c’è un assolo di batteria al centro di una pop song?) dà esattamente l’idea, ribadito nel video da quell’ultimo tassello del puzzle, ’angry’. Rabbia, e voglia di liberarsi, e di essere meravigliosa, il video lo racconta benissimo.
«…E quando ci penso, le mie dita diventano pugni
Non ti ho mai fatto nulla, man
Ma per quanto io ci provi
Mi continui a picchiare con le tue bugie amare
Per cui chiamami pazza, tienimi giù
Fammi piangere – ora levati di mezzo
Non ci vorrà molto tempo prima che
Zoppicherai con le tue stesse mani».
’Love Ridden’ è una ballata lenta che sembra uscita dagli anni 70, la musica potrebbe essere scuola Elton John ma il sogghigno con cui la canta è senza inconfondibilmente Fiona, come lo è ’Paper Bag’, «pensavo fosse un uccello ma è solo un sacchetto di carta», una canzone – come il video mette in scena – che sembra uscire da un musical, uno pensa a papà e mamma, chissà se quel bambino che l’accompagna all’uscita e le consegna la sua valigia è simbolico dell’ uscire di casa e farsi una vita seguendo la propria strada.
«C’ho preso abbastanza gusto
A un errore ben fatto
Voglio sbagliare, perché non posso sbagliare?»
’A Mistake’ ha un incedere alla Massive Attack (molti pezzi lo hanno, quella sorta di heavy trip-hop), un groove basso/batteria sporcato e strecciato da effetti e chitarre acidissime. È evidente come Fiona abbia trovato una cifra che esprime perfettamente gli stati d’animo di quello che racconta. Dolcezza, amarezza, incazzatura, furia, ogni tassello emotivo trova il suo suono, la sua temperatura emotiva. Che differenza dal languore, dalla gentilezza malinconica con cui le cantautrici di qualche anno prima esprimevano i loro stati d’animo, la loro fragilità. Ma con quei testi come potresti fare ballate accattivanti? Come Alanis in ’You Oughta Know’ non c’è redenzione, ma neanche soddisfazione, se non sbattendolo in faccia. Non sono materia per cuori deboli, sembra dire, o per ragazzi che non sappiano maneggiare esplosivo. Corri, ragazzo, scappa via! ’Fast As You Can’ parte con un ritmo frenetico di pianoforte, pausa a metà, e riprende a correre fino alla fine, davvero una morsa alla gola:
«Ho lasciato entrare la bestia troppo presto,
Non so come vivere senza una mano alla sua gola
Lo combatto sempre e ciononostante, darling,
È così dolce, tu credi di sapere quanto sono pazza
Dici che non ti spaventi troppo facilmente, dici che non te ne andrai
Ma io so e prego tu lo faccia
Più veloce che puoi, baby, corri – liberati di me».
Alla fine, ’I Know’ chiude queste montagne russe emotive su un tono, se non di pacificazione, almeno di comprensione, di accettazione di sè e dell’altro. Perché non è solo lei ad essere incasinata, anche lui non scherza. È una sorta di sua ’Perfect Day’, incedere lento, archi e voce sussurrata, è una storia che abbiamo prima o poi vissuto tutti, sapendo come andrà a finire:
«Sia quel che sia, sono il tuo grimaldello
È questo che sono stata fin qui
Finchè non ti tiri fuori da questo casino.
E io farò finta di non conoscere i tuoi peccati
Finchè non sarai pronto a confessare.
Ma per tutto il tempo saprò,
E tu puoi usare la mia pelle
Per seppellirci i segreti.
E rimarrò calma
E sarò la prima a non fare domande
Mentre faccio le mie cose sullo sfondo.
Baby, non posso aiutarti finchè lei è ancora in giro
Per cui per adesso sarò paziente
E in mezzo a questa amarezza
Tu pensaci -anche se non ha molto senso
Tutto il tempo – datti tempo
E quando la folla sarà diventata troppo pesante
E avrai chiuso in anticipo il sipario
Ti aspetterò sulla porta del backstage
Mentre troverai le parole per esprimerti
E lo riaprirai, sperando in un bis
E se si farà troppo tardi perché io ti aspetti,
Perché tu scopra di amarmi e trovi le parole,
È ok, non devi dire nulla».
Lei sì che sa sicuramente come trovare le parole, e usarle. E sa farle vivere, su disco e ancor più dal vivo, con una intensità magnetica, toccante, che ti lascia sospeso a trattenere il fiato. Impossibile non rimanere travolti, presi alla gola da quella che è una grandissima interprete, Ella Fitzgerald e Billie Holiday sarebbero state d’accordo.
In una chiaccherata con Quentin Tarantino sulla maniera di scrivere, ha detto: «Inizia tutto da una parola, se ne trovo una che mi eccita e trovo un’associazione con qualcosa che mi capita nella vita lascio che le parole mi girino in testa, senza scriverle, le riarrangio, gli dò un ritmo, cerco di metterle in modo che rimbalzino una sull’altra, cerco una rima – e sono stupita di come ci sia sempre una rima che dà un senso compiuto- e quando c’è una strofa o un ritornello, allora mi siedo al piano». Tarantino suggerisce il concetto di «antenna con Dio», e lei continua: «Sì, la maggior parte del tempo è stare lì con un’antenna accesa e quando sono piena, vado».
Ha detto più volte che scrive solo quando ne sente la necessità, e la distanza fra i suoi album, anche se riempita da tante collaborazioni, ne è la prova provata: cinque album in 25 anni, e ognuno di livello eccellente. Il seguito è stato prima di culto, ed essenzialmente femminile, poi i riconoscimenti sono arrivati, Grammy e alta considerazione di quella critica che la stroncava. Perché cosa ci vuole a stroncare una ragazzina? Ha dimostrato di essere molto forte, più forte di loro, con tutte le sue nevrosi e i fidanzamenti disastrati e quel senso un po’ estremo, drammatico, di prendere la vita a graffi e pugni.
Una degli artisti più interessanti sulla scena americana, con una visione di quello che dovrebbe essere un artista: uno che attraverso la musica cura le sue ferite come quelle di coloro a cui si rivolge. Se poi nel farlo pubblica anche dei dischi straordinari, beh, quella è Fiona Apple, quella dagli occhi blu profondo.