Grazie Mario Lavia. Il suo “Un breve trasloco” – è un retroscena di un commentatore di vaglia, il mio un auspicio. Eleggere Giuliano Amato alla Presidenza della Repubblica sarebbe un segnale inequivocabile che “lassù qualcuno ci ama”, che lo “stellone” del Belpaese brilla più che mai di luce propria.
In pochi anni, dalle macerie del 4 marzo 2018, l’Italia diimostrerebbe di essere stata in grado di compiere un miracolo politico in grado di assicurarle quel futuro a cui sta lavorando, da Palazzo Chigi, Mario Draghi.
Ognuno nel suo ruolo, la collaborazione tra Amato e Draghi continuerebbe sulla stessa linea (atlantica, europeista, riformista e sostenibile) che Sergio Mattarella per mesi ha difeso da solo, fino a riportarla al centro dell’iniziativa politica con Draghi, il governo delle larghe intese e il PNRR.
Giuliano Amato non ha mai ricoperto incarichi di carattere internazionale, ma è stato presidente del Consiglio per due volte e ministro in diversi esecutivi. Attualmente, è vice presidente della Consulta e potrebbe esserne eletto presidente entro poche settimane. Personalità di grande cultura, versatilità e intelligenza, è un insigne giurista che, insieme ad Augusto Barbera, ha pubblicato opere fondamentali nel campo del diritto costituzione e pubblico, oltre ad essere autore di una vasta saggistica su temi storici, economici e politici, con l’apporto del protagonista e dello studioso.
La migliore definizione di Giuliano Amato la diede un suo compagno di partito, Gennaro Acquaviva, uno che lo conosceva bene: «Il peggior difetto di Amato è quello di credersi il migliore. Il maggior pregio è quello di essere il migliore veramente». Chi scrive ha avuto un lungo rapporto di amicizia con Giuliano Amato, che culminò nel momento più difficile del suo cursus honorum (in sedicesimo, anche del mio): il suo primo governo negli anni 1992-1993 (per l’esattezza dal giugno 1992 all’aprile 1993).
Per quanto mi riguarda mi sono portato appresso per anni il bisogno di parlare di quella esperienza, di ristabilire la verità su un evento della storia nazionale per lunghi anni negletto, ignorato, caricato dei tanti veleni che caratterizzarono un’epoca della politica italiana. Un evento espropriato dei meriti innegabili – che ebbe in buona misura – con la stessa brutalità di quando si espungono dalla storia le opere degli avversari politici e si correggono i dagherrotipi per farne sparire persino le immagini.
Per anni, l’Amato del 1992 non ha potuto prender posto nella galleria degli statisti gloriosi. Sulla sua compagine pesavano la condanna che il nuovo regime aveva decretato per il vecchio, la maledizione di Tangentopoli, la colpa di un risanamento finanziario condotto con l’accetta e senza guardare in faccia a nessuno. Così si era arrivati a falsificare non solo le pagine, ma persino la cronologia della storia patria. La nuova (quella del latte e del miele, delle virtù repubblicane, della intelligenza applicata alle riforme) prendeva l’avvio, nelle cronache ufficiali, col governo Ciampi, la personalità che era succeduta al dottor Sottile a Palazzo Chigi: il presidente, che inaugurò la dinastia degli ex Governatori prestati alla politica.
Recentemente si è intonato, per l’ennesima volta, il Magnificat in onore del protocollo triangolare del luglio 1993 considerato l’avvio della prassi della concertazione. Molti furono gli elementi importanti di quell’intesa: in particolare, il meccanismo che superò e sostituì la defunta scala mobile (l’evoluzione salariale venne ricondotta interamente nell’ambito della contrattazione, nazionale e decentrata, assumendo, rispettivamente, come parametri l’adeguamento al costo della vita e la ripartizione della produttività), diede un contributo decisivo al rientro dall’inflazione e, soprattutto, trasformò i rinnovi contrattuali da occasioni di pesanti conflitti sociali in riti fisiologici, persino un po’ burocratici.
In cambio, però, le confederazioni sindacali ottennero, grazie a quel patto, un salvacondotto per transitare nella Seconda Repubblica con un ruolo da protagonisti nelle scelte di politica economica e sociale. Il medesimo salvacondotto servì anche a far dimenticare, con una frettolosa amnistia, i comuni legami profondi che esse avevano avuto con il regime politico proscritto. Ma senza l’accordo del 31 luglio dell’anno precedente, voluto fortemente da Amato, che liquidò del tutto la “scala mobilie” e congelò il disordine esistente nella contrattazione collettiva, lo storico protocollo del 1993 non sarebbe mai stato possibile.
Durante il successivo mese d’agosto il governo fu impegnato a difendere la stabilità del cambio della lira nell’ambito dello Sme. Ma la speculazione non mollò la presa. Si avvertiva l’esigenza di un segnale che desse fiducia ai mercati, perché la Banca d’Italia stava impiegando le riserve valutarie nella difesa del cambio, senza riuscire peraltro a invertire la tendenza. Nel frattempo, oltre alla debolezza della lira rispetto alle altre valute, c’era la fuga dei capitali. Gli stessi titoli venivano acquistati all’estero con un notevole guadagno fiscale. Cedeva il mercato secondario. «I conti del paese – scrisse Giuliano Amato, anni dopo, riflettendo su quei momenti – stavano rapidamente scivolando verso un abisso senza ritorno». Era diffuso il timore che le emissioni di titoli di Stato andassero deserte, lasciando il governo in bolletta, senza neppure le risorse per pagare gli stipendi. Una situazione prossima alla bancarotta.
Era giunto il momento delle scelte coraggiose, delle decisioni dure. Il D-day venne il 17 settembre: quella manovra rimane, ancora oggi, una delle operazioni finanziarie più imponenti che uno Stato moderno ha potuto compiere nel corso degli ultimi decenni del XX secolo: per dimensioni tra maggiori entrate e tagli alla spesa (oltre 90mila miliardi di lire da aggiungere ai 30mila dell’aggiustamento precedente); per qualità, dal momento che non era in campo solo un tentativo più o meno brutale di fare cassa, ma anche un disegno ampio di riordino di settori delicatissimi (le pensioni, la sanità, il pubblico impiego e la finanza locale) attraverso emendamenti al disegno di legge delega che il governo aveva presentato – con la cautela che si usava a quei tempi – poco dopo il suo insediamento.
La legge, con le modifiche, fu approvata a tambur battente dal «Parlamento degli inquisiti». E il governo varò entro la fine del 1992 i relativi decreti legislativi, salvo quello sulla previdenza complementare che slittò all’aprile del 1993 e fu l’atto finale dell’esecutivo.
Al di là dei contenuti quel blocco di provvedimenti ruppe l’incantesimo della Prima Repubblica. In Italia diventò possibile ciò che non lo era mai stato: fare le riforme non con criteri additivi, ma come strumento di risanamento finanziario. L’impressione sull’opinione pubblica (che era ancora arrabbiata per il taglio inopinato sui conti correnti) fu enorme. Il sentimento dominante dei media e del Palazzo era proprio di meraviglia. Quelle misure erano proprio “inconcepibili”. Nessuno, fino ad allora, avrebbe mai “concepito” che un governo osasse tanto.
Questi ricordi di un ottuagenario – che in quei frangenti “c’era”– lo inducono a ritenere che la elezione di Amato al Quirinale costituirebbe un atto di riappacificazione nazionale, non tanto tra diverse forze politiche (di quelle presenti allora è rimasta solo la Lega), ma tra differenti fasi storiche, ridando legittimità al meglio di quella Prima Repubblica, ingiustamente archiviata con un marco di infamia, di cui oggi si cominciano a riconoscere le forzature e le strumentalizzazioni.