A otto giorni dalla riunione della direzione e dei gruppi parlamentari del Partito democratico la posizione di Enrico Letta non è delle più invidiabili. Nel suo partito, more solito, convincono posizioni diverse, con il rischio di un ennesimo Vietnam interno, ma soprattutto non è chiaro né a lui ne a nessuno cosa intendano fare gli altri, in primo luogo la destra: dall’amica Meloni e dal collega Salvini non stanno giungendo segnali che indichino la volontà di mollare Silvio Berlusconi, il vero spauracchio del leader del Pd, giacché in caso di ascesa del Cavaliere al Quirinale a Enrico Letta verrebbe imputato di tutto.
Al numero uno del Nazareno, perfidamente, Berlusconi ha lasciato l’onere della prima mossa avendo spostato il vertice della destra a dopo il conclave dem. E a maggior ragione il segretario del Pd galleggerà su una situazione fluida. L’emblema di questo galleggiamento sarà l’indicazione lettiana di votare scheda bianca alle prime tre votazioni.
Se l’indiscrezione verrà confermata, ciò equivarrà all’addio al metodo Ciampi che consentì all’allora ministro del Tesoro di essere eletto alla prima votazione con la maggioranza dei due terzi.
Dopo aver scartato la balzana idea di uscire dall’aula nel caso in cui la destra votasse Berlusconi, anche perché non esiste un’aula da cui uscire, il Pd pare anche rinunciare alla candidatura di bandiera (si era fatto il nome di Anna Finocchiaro, inconsapevole vittima dell’ultimo show di Massimo D’Alema al quale è storicamente legata e che ha fatto infuriare persino il mite segretario), mentre emergono nei gruppi parlamentari diversi consensi alla proposta del Movimento 5 stelle di scrivere sulla scheda il nome di Sergio Mattarella.
In ogni caso, anche Letta è costretto ad aspettare gli eventi, non potendo o non sapendo determinarli. La situazione è un po’ rischiosa perché basterebbe anche un piccolo errore per creare problemi molto seri.
Innanzitutto, il numero uno del Nazareno deve tener fede a quello che ha già detto – «Preservare Draghi» – cioè evitare di mandare il presidente del Consiglio allo sbaraglio nelle votazioni per il Colle (ma basterebbe dichiarare che per il Pd SuperMario non è in campo per evitare il clamoroso inciampo) o anche di mettere a repentaglio le sorti del governo, ove al Presidente eletto venissero a mancare i voti di qualche partito della maggioranza.
Mario Draghi al Colle, ipotesi di per sé non sgradita, comporterebbe inoltre l’enorme incognita di quale governo fare, un’evenienza che terrorizza gli alleati grillini e preoccupa anche Base riformista, l’area dem più convinta della necessità che questo governo vada avanti.
E tuttavia, sottotraccia, ci sono figure singole (più che correnti) che vogliono puntare a un nuovo esecutivo e a una premiership del Pd, con Letta o Dario Franceschini alla guida di un governo di un anno con una marea di soldi da gestire. Ma sono disegni spericolati. Troppo.
Al momento l’uomo che può puntare ad avere il consenso più vasto (malgrado gli inevitabili franchi tiratori) pare quello di Giuliano Amato, il cui nome uscirebbe secondo un percorso che abbiamo descritto ieri: eletto presidente della Corte Costituzionale il 28 gennaio, Amato sarebbe subito spendibile per il Colle più alto, essendo anche, per tornare al Pd, la figura che nel partito di Letta potrebbe mettere d’accordo più o meno tutti: il gruppo dirigente del segretario, la corrente ex renziana di Base riformista e la sinistra ancora sensibile al dalemismo che da sempre ha ottimi rapporti con il Dottor Sottile. Non è facile ma è una via d’uscita che varrebbe la pena di esplorare.