Dall’inizio dell’inverno l’ondata di contagi che sta attraversando Europa e Stati Uniti sta creando enormi difficoltà anche al mondo dello sport. Tra giocatori in quarantena, partite rinviate e nuovi protocolli da scrivere, nessun campionato riesce a far funzionare tutto come vorrebbe.
La maggior parte delle difficoltà riguarda il lato organizzativo, lo svolgimento degli eventi sportivi. Ma in una prospettiva di lungo periodo si nota un problema che passa leggermente sotto traccia nelle cronache quotidiane, una criticità che sta già pesando sulle prestazioni degli atleti.
Per un calciatore, tennista, nuotatore o qualsiasi altro professionista dello sport, la positività al Covid potrebbe non limitarsi a uno stop temporaneo dall’attività sportiva. Il processo di guarigione varia da persona a persona, e per qualcuno la strada per tornare al 100% non è una linea retta.
In molti casi gli effetti del Covid pesano per settimane sulla performance degli atleti. «Dopo cinque minuti ho dovuto fermarmi perché stavo faticando a respirare», aveva detto l’attaccante della Juventus Paulo Dybala a marzo 2020.
Il giocatore argentino è stato uno dei primi contagiati della Serie A e di conseguenza la sua esperienza è stata una delle prime di cui abbiamo avuto traccia nello sport professionistico italiano. Fortunatamente per Dybala, il lockdown fino a giugno 2020 gli ha concesso un tempo sufficiente per riprendersi. Ma per altri giocatori tre mesi potrebbero non bastare.
Il suo caso è stato preso ad esempio dall’Economist, che in un recente articolo ha spiegato come per alcuni calciatori d’élite gli effetti del Covid-19 possano durare molto a lungo. «Molto tempo dopo l’infezione, i giocatori giocano meno minuti e completano meno passaggi», si legge, che si basa su una ricerca pubblicata da tre economisti, Kai Fischer e W. Benedikt Schmal della Heinrich Heine University, e J. James Reade dell’Università di Reading.
Lo studio ha analizzato le prestazioni di oltre 200 giocatori risultati positivi nella Bundesliga tedesca e nella Serie A italiana fino a luglio 2021, guardando i dati Opta su minuti giocati, distanza percorsa e passaggi completati.
«Gli autori dello studio – scrive l’Economist – hanno rilevato un calo del 9% nei minuti giocati per i giocatori positivi, mentre i passaggi completati sono diminuiti del 6% e non sono tornati alla normalità per mesi». Una statistica che potrebbe riflettere gli effetti persistenti del virus.
L’Economist ha poi replicato l’analisi in maniera ancora più approfondita, utilizzando un indicatore composito e più sofisticato, formato da oltre 40 voci statistiche e fornito dalla società di consulenza di intelligence sportiva Twenty First Group. «Nelle dieci settimane successive all’infezione si è verificato un calo medio del punteggio di 0,14, come a dire che un giocatore al 50esimo percentile in un campionato è sceso al 30esimo percentile. E solo dopo dieci settimane questi sono tornati alla normalità, suggerendo che comunque i giocatori possono tornare ai loro livelli abituali».
È chiaro che le probabilità di guarigione dei calciatori e di altri sportivi professionisti restano piuttosto alte: si tratta di un campione di persone giovani, in forma e che ricevono cure mediche di altissimo livello. Ma il fatto che il Covid possa persistere anche in questi soggetti è un segnale preoccupante.
Alcune settimane fa un centrocampista del Bayern Monaco, Joshua Kimmich, aveva ammesso di non essere ancora vaccinato per timori di possibili effetti a lungo termine del vaccino sulla salute. Poi lo scorso novembre è risultato positivo a un tampone ed è stato fermo un mese tra positività e quarantena – dal 9 novembre al 9 dicembre.
Al rientro, però, ha avuto delle complicazioni: ha accusato una leggera infiltrazione ai polmoni che non gli ha permesso immediatamente di tornare ad allenarsi. «Il pericolo è che il liquido mi arrivi al cuore e che ci siano conseguenze a lungo termine», ha detto Kimmich, che poco dopo ha annunciato di aver cambiato idea sul vaccino.
Anche i media americani hanno raccontato storie di atleti dei principali sport nazionali che hanno avuto complicazioni dopo essere risultati positivi. Espn, di recente ha lasciato la penna a Dakota Dozier (affiancato dalla giornalista Courtney Cronin), giocatore di football americano che ha raccontato la sua vicenda e le difficoltà che ha attraversato, tra sintomi forti, polmoni in affanno, perdita di peso e massa muscolare (si può leggere qui).
In alcuni casi il long Covid rischia di intromettersi nel normale sviluppo della carriera degli atleti, che sono costretti a fermarsi proprio quando vorrebbero essere nel punto più alto della propria parabola professionale.
I due giocatori più forti e rappresentativi dei Boston Celtics (franchigia di Nba), Jaylen Brown e Jayson Tatum, hanno contratto il virus nell’ultimo anno e le loro prestazioni – così come quelle di tutta la squadra – ne hanno risentito sul lungo periodo.
Jaylen Brown, 25 anni, lo scorso ottobre aveva detto che dopo una partita il suo corpo non era più in grado di recuperare dallo sforzo con la stessa rapidità con cui recuperava prima della malattia.
A Jayson Tatum, 23 anni, era stato diagnosticato il Covid a gennaio 2021 e ha detto ai media che da allora ha iniziato a usare un inalatore prima delle partite per aprire i polmoni, cosa che non aveva mai dovuto fare prima. I polmoni di Tatum sono stati in qualche modo danneggiati dal Covid e il suo rendimento in campo ne ha risentito praticamente per tutto l’anno, limitandolo anche da un punto di vista psicologico.
È importante sottolineare, ancora una volta, che tra tutti gli atleti che hanno contratto la malattia la percentuale di quelli che hanno accusato problemi gravi è comunque piuttosto bassa rispetto ad altre fasce della popolazione.
Uno studio pubblicato sul British Journal of Sports Medicine ha esaminato 3.597 atleti maschi e femmine di 44 college e università degli Stati Uniti (quindi quasi tutti nella fascia d’età 18-24) con precedenti infezioni da Covid-19. Di questi, solo l’1,2% presenta sintomi persistenti di lungo periodo – vengono definiti come sintomi che durano più di tre settimane dalla malattia iniziale o dall’esordio dei sintomi.
Dopo il ritorno all’attività sportiva, anche i sintomi da sforzo – quindi dolore al torace, mancanza di respiro, affaticamento e palpitazioni cardiache – erano rari, intorno al 4% del campione di atleti preso in esame.
«Questo studio mostra che un ritorno al gioco senza problemi è possibile per molti atleti, anche se non per tutti», ha detto il dottor Jonathan Drezner, direttore dell’UW Medicine Center for Sports Cardiology e autore dello studio pubblicato sul British Journal of Sports Medicine. «Ma qualsiasi nuovo dolore al torace o sintomo cardiopolmonare – aggiunge – dovrebbe essere preso sul serio e monitorato costantemente per i problemi che possono esserci a diversi organi, compreso il cuore. E ovviamente questo vale a maggior ragione per tutte le persone, anche i non atleti, che hanno avuto il Covid».