È stata la prima donna a segnare un canestro ai Giochi Olimpici, è stata la prima donna nera inserita nella Hall of Fame del basket americano, è stata soprattutto la prima e unica donna in assoluto selezionata al Draft da una squadra Nba. Non per lega femminile, proprio la stessa Nba in cui giocavano Kareem Abdul-Jabbar, Julius “Dr. J” Erving, “Pistol” Pete Maravich.
Lusia “Lucy” Harris è stata una delle pioniere dello sport americano e mondiale, una che ha fatto la storia del basket prima in un modo, poi in un altro, poi in un altro ancora. È scomparsa la notte del 18 gennaio, a 66 anni, nella sua casa in Mississippi. Nel suo messaggio di cordoglio la famiglia l’ha definita «matriarca, sorella, madre, nonna, medagliata olimpica».
Un’atleta che è diventata un fenomeno del basket negli anni ‘70, molto prima che l’attuale lega femminile di pallacanestro americana, la Wnba, diventasse realtà, quindi prima dei contratti da professionista e degli sponsor. «È senza dubbio la più grande giocatrice di basket femminile che non ha mai abbellito una scatola di cereali Wheaties», ha scritto The Undefeated proprio per sottolineare la differenza tra l’esposizione mediatica di una campionessa di quel periodo con quella attuale.
Harris inizia a giocare a basket da piccola, alla TY Fleming Elementary di Minter City, in Mississippi, seguendo le orme della sorella maggiore Janie Mae. In famiglia c’è sempre qualcuno di più grande da imitare: decima di undici figli, nata dal matrimonio tra Ethel e Willie, coltivatori della periferia del Mississippi, “Lucy” vive al seguito delle sorelle e aiuta l’economia di casa raccogliendo cotone quando esce da scuola.
Nel poco tempo libero fratelli, sorelle e amici si raggruppano attorno a casa Harris per tirare a canestro, perché casa Harris è l’unica dell’intero quartiere ad averne uno.
La passione per basket nasce lì, ma poi si alimenta alla tv, ben oltre l’orario consigliato: «Stavo sveglia fino a tardi pur di vedere Bill Russell, Kareem e il mio preferito, Oscar Robertson. E mia madre mi sgridava sempre», racconterà Harris in più di un’occasione.
Quando arriva all’high school è già oltre il metro e ottanta. «Mi dicevano che ero alta e basta, e non avrei potuto fare niente nella vita. Non era vero». Alla Amanda Elzy High School impara a maneggiare tutti i fondamentali del gioco. Soprattutto, ha una capacità naturale per il tiro dalla media distanza, che trova il fondo della retina ogni volta che vuole.
Finito il liceo è il momento di dominare le competizioni a livello universitario, cioè il punto più alto a cui può ambire una cestista degli anni ‘70. Nei quattro anni alla Delta State University “Lucy” si impone come uno dei centri – o pivot – più forti di sempre, allenata da Margaret Wade (un’altra che entrerà nella Hall of Fame).
Lusia Harris ha il merito di mettere l’ateneo con sede a Cleveland, Mississippi, sulla mappa del basket americano: vince tre titoli consecutivi tra il 1975 e il 1977, portando la sua alma mater a un record di 109 vittorie e 6 sconfitte in 115 partite. A livello personale Harris segna una media di 25,9 punti e 14,4 rimbalzi a partita. E il giorno della laurea, quello in cui esce per l’ultima volta dalla Delta State, detiene 15 record storici della sua università.
Gli anni universitari sono anche quelli in cui veste i colori della Nazionale. Il primo successo è la medaglia d’oro ai Giochi panamericani di Città del Messico 1975. Poi l’anno dopo arriva la prima edizione del torneo olimpico di basket femminile, a Montreal.
Nell’estate del 1976 il suo impatto sul mondo della pallacanestro travalica i confini nazionali, si espande in tutto il mondo: è lei a segnare il primo canestro nella prima competizione olimpica femminile, contro il Giappone. Alla fine del torneo la Nazionale a stelle e strisce vince la medaglia d’argento, con Harris ovviamente nelle vesti di miglior scorer, miglior rimbalzista, miglior giocatrice.
È così che arriva alle porte del campionato di basket più importante del mondo, con mezzi atletici e tecnici fuori dal comune, un talento raro che ha messo in mostra su tutti i parquet americani, il riconoscimento della mentalità vincente che la porta al successo.
Lusia Harris viene stata scelta al Draft Nba – l’evento annuale durante il quale le squadre possono selezionare nuovi giocatori dal college, dai licei o da campionati stranieri – nel 1977 dai New Orleans Jazz. Ma non arriva mai a mettere piede in campo con la franchigia della Louisiana: nel 1977 Lusia Harris è incinta e ha altre priorità. «Sapevo di non poter competere a quel livello, ma non fu mai un problema perché avevo già deciso di fermarmi e crescere la mia famiglia, e non ho rimpianti su questo», dirà in un’intervista molti anni dopo.
Nel 1992 diventa la prima donna nera a entrare nella Naismith Basketball Hall of Fame e sette anni dopo, nel 1999 trova il suo posto nella nuova Women’s Hall of Fame.
Lusia Harris non ha mai avuto nostalgia del passato, del suo basket, dello stile impostato delle partite degli anni ’70. Anche negli ultimi tempi aveva detto di guardare sempre le partite in tv: le faceva piaceva sapere che l’evoluzione del gioco avesse portato a giocatrici più veloci, più forti, più talentuose di lei e delle sue compagne.
L’anno scorso è stato pubblicato un documentario di 20 minuti intitolato “The Queen of Baskeball”, firmato dal regista canadese Ben Proudfoot e presentato in anteprima al Tribeca Film Festival a giugno. Le immagini di repertorio di una cestista semplicemente troppo migliore delle altre nove in campo si alternano con l’intervista della protagonista che racconta la sua storia. Il New York Times dice che «il team di Proudfoot ha digitalizzato quasi 10mila negativi e 16mila piedi di pellicola per rivelare al mondo perché Harris era inarrestabile sul campo».