No hospitalIl populismo sanitario di chi considera i non vaccinati pazienti di serie B

La proposta del dottor Mario Riccio, noto per le sue posizioni anche coraggiose in campo bioetico, tradisce l’idea per nulla costituzionale che le cure mediche non siano un diritto di tutti, ma qualcosa che ci si deve meritare con comportamenti virtuosi, contribuendo a un clima di colpevolizzazione e tribalismo

Guido Calamosca/LaPresse

Il dottor Mario Riccio è il medico anestesista-rianimatore che aiutò nel 2006 Piero Welby a morire, interrompendo, su richiesta dell’interessato, il trattamento di sostegno vitale della ventilazione meccanica.

Il suo caso suscitò, come si ricorda, grande scandalo. Fu avviata un’inchiesta per omicidio del consenziente, che si concluse con il proscioglimento di Riccio sulla base di un principio che avrebbe avuto grande e positivo rilievo nella discussione biogiuridica successiva, cioè della possibilità di non praticare o di interrompere trattamenti non accettati (o non più accettati) dal paziente, anche nel caso in cui questo atto ne cagionasse immediatamente la morte. Da allora Riccio è divenuto un personaggio conosciuto e le sue posizioni in campo bioetico hanno sempre ricevuto grande ascolto e considerazione.

Non c’è da dubitare che grande attenzione riceverà anche la proposta avanzata da Riccio in una intervista a Repubblica del 12 gennaio, riassunta dal giornale con questo titolo virgolettato: «Se mancano i posti letto non è giusto che un no vax abbia la precedenza. Cambiamo il codice etico». Vale la pena di approfondirla – per quanto sia possibile approfondire in contenuto di un’intervista – perché articola in termini construens un riflesso abbastanza comune nella polemica pubblicistica, cioè quello della non meritevolezza dei trattamenti sanitari di emergenza da parte dei cittadini non vaccinati contro il Covid.

Al centro della proposta di Riccio c’è un problema bioetico da sempre molto dibattuto, che non nasce certo con il Covid e che non solo con il Covid si è imposto nella sua estrema drammaticità: quello del principio distributivo delle risorse dei sistemi sanitari di fronte a una domanda di cura superiore all’offerta disponibile.

Tutti i problemi di scarsità sono problemi morali, prima che economici e politici, e dunque lo è anche quello della scarsità di risorse sanitarie. Si tratta di un problema, sia detto en passant, che in sistemi sanitari pubblici e universali, come quello italiano, a differenza di quelli privati e assicurativi, dovrebbe trovare in primo luogo soluzione nell’adeguamento dell’offerta ai livelli minimi di assistenza garantiti direttamente dalla legge, sulla base di una specifica norma costituzionale.

Posto che la programmazione sanitaria italiana non è stata mai particolarmente attenta a allineare i diritti previsti sulla carta a quelli reali (e le liste d’attesa sono il tipico meccanismo di aggiustamento del sistema) e che i problemi di scarsità non dipendono quasi mai da un’esplosione imprevista della domanda, ma da scelte politiche irresponsabili o sbagliate (i posti letto in terapia intensiva in rapporto alla popolazione erano già pochi in Italia prima del Covid rispetto ad altri Paesi europei), non c’è dubbio che un evento pandemico è il classico fenomeno che rischia di fare saltare la tenuta del meccanismo. Soprattutto se, come è successo in Italia, i piani pandemici, pure previsti dalla legge, non escono dai cassetti e neppure vengono aggiornati e dunque lasciano il sistema impreparato di fronte a una possibile emergenza.

È comunque evidente che la pandemia ha messo a dura prova anche sistemi sanitari più organizzati e efficienti di quello italiano, quindi la riflessione di Riccio ha una sua urgente attualità, considerando che non si può escludere – come è già accaduto in precedenza – che complessivamente sugli ospedali e sulla medicina territoriale si riversino più malati (non solo di Covid) di quelli concretamente assistibili.

Però, da questo discende la legittimità o l’ineluttabilità di un principio di discriminazione su base etica dei pazienti da curare? E perché questo principio di discriminazione dovrebbe – in modo ulteriormente discriminatorio – colpire solo la renitenza vaccinale e non altri comportamenti volontari, che siano cause di morte evitabile e di saturazione “colpevole” delle strutture sanitarie, come il consumo di prodotti da fumo e di alcolici, la cattiva alimentazione e il sovrappeso o il mancato controllo della salute con gli screening diagnostici raccomandati e gratuiti?

Si badi – a scanso di equivoci – che la proposta di Riccio di curare prima chi se lo “merita”, non ha niente a che fare con quella dell’obbligo vaccinale o in generale delle imposizioni legali (utili o inutili che siano), a tutela della salute individuale.

Esiste l’obbligo di utilizzare le cinture di sicurezza, ma le vittime degli incidenti stradali non sono discriminate nell’accesso alle cure a seconda dell’adempimento della prescrizione. È vietato consumare eroina, ma un tossicodipendente in overdose non passa in coda a chi “non si droga”. E si potrebbe continuare con gli esempi.

Dove l’emergenza sanitaria impone esigenze di selezione nella riflessione bioetica (e non solo della prassi deontologica) sono stati elaborati criteri di giustizia diversi, che non mettono però mai in discussione il principio dell’uguaglianza morale dei pazienti, differenziandone l’accesso alle prestazioni sulla base di criteri rigorosamente impersonali e oggettivi. A grandi linee, in modo molto sommario e senza alcuna pretesa di esaustività, si può dire che si confrontano in genere criteri utilitaristici e personalistici.

Nel primo caso si cerca di ottenere il maggior beneficio possibile per il maggior numero di persone, a parità di costi, e quindi si tende a privilegiare, sulla base di una valutazione prognostica, i pazienti che hanno la maggiore possibilità di sopravvivenza e una speranza di vita quantitativamente e qualitativamente migliore. Nel secondo caso, viene considerata la pura urgenza medica e quindi a parità di urgenza (ad esempio: di due persone che hanno contemporaneamente un uguale bisogno dell’unico respiratore disponibile per sopravvivere), vale il principio del first come, first served, giudicando qualunque altro criterio di selezione, a partire dall’età, dallo comorbilità e dalla probabilità di sopravvivenza, estrinseco alla dignità della vita, intesa in termini incondizionati e assoluti.

Le linee guida adottate dalla Siaarti (Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva) nel marzo 2020, all’esplosione della pandemia, riflettono in modo abbastanza netto il primo approccio.

Ma, ai fini del nostro discorso, rileva la considerazione che da questo, come anche dall’approccio alternativo, non discende alcuna conseguenza dalla condotta del malato e dalla sua responsabilità morale rispetto alla malattia.

Per tentare di ricondurre la sua richiesta di riforma del codice etico alle prassi oggi utilizzate Riccio usa l’argomento, concettualmente fallace e retoricamente ingannevole, delle presunte discriminazioni di fumatori e alcolisti nei trapianti di polmone e di fegato: «Difficilmente – dice Riccio – un polmone andrà a un grosso fumatore o un fegato a un etilista». In questo caso, però, non si tratta affatto di una discriminazione morale del malato più “colpevole”, ma di un giudizio clinicamente negativo sul costo opportunità dell’intervento. Detto in termini più comprensibili, non si considera bioeticamente corretto “sprecare” un fegato sano per chi ha una condizione di comorbilità (la dipendenza da alcol) che lo rende un soggetto meno eleggibile al trapianto di un altro paziente, che grazie ad esso (e all’assenza di quella specifica comorbilità) vivrebbe meglio e più a lungo. È una valutazione utilitaristica delle conseguenze della scelta, non moralistica della responsabilità della persona.

Dietro alla proposta di Riccio c’è qualcosa di più della comprensibile frustrazione di un professionista di fronte a pazienti che rifiutano irrazionalmente il vaccino. C’è la persuasione politica (e niente affatto deontologica) che i diritti vadano “meritati”, perché non sono principi riconosciuti universalmente dalla legge, ma prestazioni sociali discrezionali, l’accesso alle quali deve essere subordinato a una valutazione morale del cittadino da parte dello Stato. Il diritto alla salute è un premio per i cittadini buoni. Così i principi dello stato etico entrano nella deontologia medica.

Dove quello alla salute non è un diritto costituzionalmente riconosciuto, cioè non esiste una responsabilità pubblica rispetto all’erogazione di prestazioni sanitarie ritenute necessarie a garantire questo diritto, cambia anche il contesto giuridico della riflessione bioetica.

Ma in un Paese come l’Italia, dove peraltro il diritto alla salute è l’unico a essere qualificato dalla Costituzione come “fondamentale” – cosa che, peraltro, ha portato a sostenerne avventurosamente l’assoluta sovra-ordinazione dall’inizio dell’emergenza pandemica – il principio di uguaglianza e non discriminazione nell’accesso alle cure deve considerarsi costitutivo del diritto stesso. Il che non significa ovviamente – ripetiamo – che sia da giudicarsi di per sé illegittima la previsione di trattamenti obbligatori, con le relative sanzioni: significa però che la sanzione non può costituire la violazione di un diritto fondamentale, perché il soggetto della sanzione è il cittadino inadempiente, ma il soggetto del diritto rimane la persona umana in quanto tale, cioè, semplicemente, in quanto persona umana.

Del resto, che si stesse giungendo a concepire – e fortunatamente non ancora a realizzare – uno speciale diritto di guerra pandemico, non era chiaro solo dalle parole di chi in questi due anni ha definito “fisime” le questioni giuridiche implicate nelle politiche di contrasto del contagio o dichiarato stentoreamente che davanti al Covid «non ci si può permettere di essere democratici».

È stato anche chiaro nella deriva concettuale verso una logica, per cui lo stesso obbligo vaccinale non doveva essere inteso e discusso come una misura giustificata, se necessitata e proporzionata alla realtà delle cose (nel suo peggio) e a quella concretamente conseguibile (nel suo meglio), ma come un’azione dimostrativa. La gestione della pandemia dei non vaccinati come processo di stigmatizzazione sociale porta inevitabilmente anche a fenomeni di tribalizzazione bioetica.

Dietro il discorso del dottor Riccio c’è tutto questo, purtroppo. E a motivarne l’asserita necessità, concretamente, non c’è neppure un calcolo quantitativo attendibile. Non è neppure vero che i non vaccinati siano gli occupanti “colpevoli” più numerosi dei posti letto degli ospedali italiani. Non sono “di più” rispetto ai fumatori, a chi abusa di alcol, a chi ha disordini alimentari, a chi ritarda accertamenti diagnostici e non fa screening preventivi: sono semplicemente un imprevisto “di più” che fa entrare in crisi il sistema e non sono più “colpevoli” di tutti gli altri “colpevoli” solo per il fatto di essere gli ultimi arrivati.

Dopo avere letto l’intervista del dottor Riccio ho cercato dati pubblici relativi alle ospedalizzazioni per problemi sanitari direttamente dipendenti dal fumo (prima causa di morte evitabile in Italia). Una ormai datata ricerca dell’Istituto superiore della sanità stimava che la quota di ricoveri attribuibili al fumo fosse nel 1999 pari al 14,9 % dei ricoveri totali e il relativo costo all’8.3 % della spesa sanitaria pubblica totale.

Non so se esistano studi più recenti e di quanto si siano modificate queste percentuali, considerando una relativa riduzione dei fumatori nell’ultimo ventennio (tornati a crescere, non casualmente, proprio nel biennio pandemico). In ogni caso stiamo parlando di un ordine di grandezza importante: un posto letto su sette e un euro su dodici speso in sanità addebitabile al fumo. E tutto questo senza considerare, come detto, gli altri malati che, per usare le parole di Riccio, «muoiono perché vogliono morire».

Tutte le cause di morte evitabile, tra cui la mancata vaccinazione rientra a pieno titolo, oltre a rappresentare costose e dolorose incombenze sanitarie, sono fenomeni di irrazionalità personale e collettiva, la cui diffusione dipende da fattori psicologici e culturali abbastanza complessi e decisamente tenaci, che è assai poco scientifico e utile pretendere di arginare con processi di colpevolizzazione. E la bioetica colpevolistica e giudicante, di cui il dottor Riccio di si è fatto interprete, è uno degli effetti collaterali della scelta irrazionale di trasformare la lotta contro il virus in una guerra civile pandemica.

Entra nel club, sostieni Linkiesta!

X

Linkiesta senza pubblicità, 25 euro/anno invece di 60 euro.

Iscriviti a Linkiesta Club