La grottesca vicenda australiana del tennista Novak Djokovic è un’ottima occasione per fare il punto, dopo due anni, degli effetti della pandemia su ciò che chiamiamo – con qualche sforzo di ottimismo – «lo Stato di diritto», inteso come organizzazione sociale retta dalla rule of the law applicata da giudici terzi e imparziali. Un bilancio che, per i motivi che diremo, miracolosamente non è irrimediabilmente negativo.
Il segnale che proviene dalla Corte dello stato di Victoria è molto chiaro: l’emergenza pandemica non cancella le garanzie minime cui ogni individuo ha diritto a godere. Tra queste, prima di tutto, c’è quella di avere il tempo sufficiente per esporre le proprie ragioni davanti un tribunale indipendente.
Le ragioni per cui il giudice Kelly ha liberato Djokovic sono sintetiche e lineari, e prescindono dal merito delle accuse. Può ben essere che il campione abbia cercato di imbrogliare aggirando le leggi australiane sull’obbligo di vaccinazione con qualche certificazione compiacente, ma deve avere modo e spazio di difendersi senza essere rinchiuso preventivamente in una stanza d’albergo con qualche ora a disposizione per articolare la sua difesa e senza poter incontrare i suoi avvocati.
Scrive Kelly: «Tutti giochiamo in base alle stesse regole e la ragione per cui dovrebbe essere annullata la decisione del governo di revocare il visto sta proprio in questo: quelle regole non sono state rispettate».
Onere della prova a carico dell’accusa e diritto di difesa sono i principi racchiusi nell’Habeas corpus act, la prima costituzione garantista del 1700, patrimonio delle società democratiche da circa trecento anni.
È un’ottima notizia dunque che un giudice a Melbourne se ne sia infischiato delle tardive questioni di principio accampate dal governo australiano e dalla scandalizzata opinione pubblica anti-novax, scagliatasi in nome dell’imperante populismo contro il ricco campione privilegiato. Vuol dire che esiste un vaccino efficace e sicuro contro le teorie complottiste: le regole del diritto in una società democratica che tutela i diritti fondamentali, smentendo le fole complottiste di qualche irresponsabile.
Sono elementari considerazioni che valgono anche per l’Italia, sebbene la propaganda filo no-vax e qualche intellettuale in cerca del suo quarto d’ora di popolarità possano far pensare il contrario e dipingano un Paese dove le libertà costituzionali incomprensibilmente sarebbero addirittura a rischio, a causa di una normale certificazione sanitaria.
Spiace che in questa battaglia si siano arruolati illustri giuristi e addirittura gli organi rappresentativi della classe forense che intravedono nell’obbligo di Green Pass per gli avvocati una grave minaccia alle libertà democratiche e, ohibò, al diritto di difesa.
Ovviamente sono favole metropolitane, perché chiunque abbia una minima infarinatura di diritto costituzionale sa benissimo che le libertà individuali trovano un limite negli interessi sociali. E che nessun diritto costituzionale può espandersi a danno di un altro di pari rango: la mia personale libertà non può danneggiare il diritto alla salute come interesse collettivo.
Elementare, ma una società attraversata da un dilagante narcisismo rifiuta anche questo basilare principio su cui si è costruito il patto costituzionale tra la società e i suoi governanti.
L’ultima frontiera della libertà sembra essere dunque la guerra al Green Pass che buona parte dell’avvocatura sembra voglia affrontare, quella stessa classe forense che sin dall’inizio della pandemia si è schierata contro ogni cambiamento tecnologico e misura prudenziale, accampando la fine dello Stato costituzionale.
Eppure in Italia le garanzie liberali ancora albergano, sia pure con qualche fatica e bene farebbero i giuristi a non alimentare, talvolta per mero vezzo intellettuale, crociate distorsive della realtà.
Invece di strillare contro vaccini e tracciamenti, ad esempio, bisognerebbe schierarsi a favore dei pochi giudici che eroicamente sfidano la riprovazione sociale difendendo lo Stato di diritto.
Basti pensare alle polemiche che a Roma si sono riversate su due decisioni adottate dalla medesima Corte di Assise in due delicatissime vicende: il caso di Giulio Regeni ucciso dalla polizia egiziana; la morte violenta del giovane Niccolò Ciatti per mano di un buttafuori di una discoteca spagnola.
Anche in questi due casi un giudice (il medesimo) ha applicato la legge per consentire il diritto di difesa agli imputati: nel primo caso pretendendo che vi fosse una prova effettiva che gli accusati dell’omicidio Regeni avessero avuto concreta conoscenza delle accuse, e nel secondo caso opponendosi a un ingiustificato “doppio processo” in Italia per lo stesso fatto contro il medesimo imputato, già inquisito in Spagna (paese competente per territorio, peraltro).
Ciò è valso una valanga di critiche e l’indignazione di qualche illustre commentatore del tutto disinformato dei fatti come delle nozioni di diritto: ci sono momenti bellissimi in cui nessuno si accorge della differenza tra ignoranti populisti e raffinati economisti di sinistra quando si avventurano tra le norme dei codici e della Costituzione – per la quale sono prontissimi a schierarsi pur ignorandola. Sono entrambi speculari gli uni agli altri.
E altri esempi si potrebbero fare, ma fortunatamente, magari in minoranza, dei giudici liberi resistono: ecco, il pericolo che si corre che tra il populismo dei no-vax e quello dei giustizialisti intolleranti è che si perda lo Stato di diritto. Da Melbourne arriva un segnale.