Mentre diversi paesi in Europa e nel mondo muovono verso le riaperture, l’Italia è sempre più incastrata in quella che la giornalista liberal Bari Weiss ha efficacemente definito «a pandemic of bureaucracy».
Nell’ultimo dei DPCM emanati, il governo ha realizzato una stretta sui luoghi e sulle attività cui è possibile accedere senza Green Pass (base). Tra questi, l’art. 1 del DPCM include quelli relativi alle esigenze alimentari e di prima necessità, e l’allegato al DPCM chiarisce che sono da intendersi tali quelli di commercio al dettaglio di prodotti alimentari, bevande e surgelati. Insomma, a intendere la piana lettera dell’atto, chi si trova sprovvisto di Green Pass potrà sì accedere ai supermercati, ma solo per l’acquisito di beni “essenziali”.
L’idea che una pubblica autorità possa intestarsi il potere di distinguere tra beni “essenziali” e beni “non essenziali” è già di per sé assurda, ma appare ancora più critica là dove si pensi che, se applicata, consentirebbe a un soggetto sprovvisto di Green Pass di entrare in un supermercato per poter comprare però solo alcune cose e non altre – magari collocate nello stesso scaffale delle prime.
Delle due, l’una: se il fine di prevenzione del contagio è fondato, è perseguito con mezzi sproporzionati e irragionevoli; se esso invece manca, il DPCM serve piuttosto a sanzionare indirettamente chi non si sia vaccinato. In entrambi i casi, la soluzione è da censurare: nell’un caso, perché in diritto il fine non giustifica i mezzi, nell’altro caso, perché non si può fare dell’«emmerder» un legittimo principio di politica pubblica.
La notizia dell’approvazione del DPCM è stata ricevuta con giustificato clamore e diffusa indignazione. Il governo è dunque corso ai ripari pubblicando delle FAQ in cui si legge che l’accesso agli esercizi commerciali «consente l’acquisto di qualsiasi tipo di merce, anche se non legata al soddisfacimento delle esigenze essenziali e primarie individuate dal DPCM».
La situazione è ai limiti dell’incredibile. Non è la prima volta che il cittadino viene obbligato ad attendere le FAQ per avere una sorta di interpretazione “autentica” di divieti e obblighi nebulosi contenuti nei DPCM; ma un conto è attribuire alle FAQ una funzione di interpretazione, un altro è fare delle FAQ addirittura uno strumento di deroga di atti aventi carattere normativo.
Sia chiaro, anche la prima ipotesi è grave – ma la seconda stravolge la gerarchia delle fonti in un modo che lascia francamente allibiti. Se il governo si è reso conto dell’errore, lo corregga, non si affidi a delle formulette pubblicate su un sito internet, prive di qualsiasi peso e rilievo giuridico.
Valga il monito che viene da un paio di recenti sentenze della Corte suprema degli Stati Uniti: non si può lasciare che il Covid contagi anche il diritto, perché da una pandemia burocratica, al contrario di una sanitaria, potrebbe non uscirsi più.