Cosa è restatoLa lunga eredità degli anni ’80 che influenza la politica di oggi

Tutte le condizioni che hanno segnato il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica sono ancora presenti e definiscono il raggio d’azione degli attuali partiti. Il libro di Simona Colarizi analizza gli effetti di questa continuità

da Lapresse

Nelle tre ripartizioni del tempo elaborate da Sant’Agostino – presente del passato, presente del presente, presente del futuro – «il presente del passato è la storia» attraverso la quale si ricostruisce proprio quella serie di eventi sui quali è stato edificato «il presente del presente».

Questa citazione accompagna costantemente gli storici nel loro lavoro di analisi attraverso il quale fissare le partizioni temporali, determinanti per valutare quanto profonde siano le cesure che sanciscono la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra, ma anche quanto a lungo restano operanti gli elementi di continuità tra un prima e un dopo.

Malgrado la ricca pubblicistica sulla fine dei partiti che avevano fondato la Repubblica democratica antifascista nel 1945, sono ancora numerosi gli aspetti di questa vicenda storica da approfondire; in particolare quei tanti lasciti del vecchio sistema politico che dopo più di trent’anni, invece di svanire, si sono moltiplicati fino a diventare caratteri dominanti della seconda Repubblica.

Non stupisce dunque la persistenza nel tempo delle polemiche appassionate su questa fase rimasta così viva nella memoria non solo dei protagonisti, ma dei tanti cittadini che nel giro di due soli anni – primavera ’92-primavera ’94 – hanno assistito alla scomparsa di tutte le forze politiche della prima Repubblica.

Per individuare quale sia stata la loro eredità, è necessario risalire alle cause che hanno portato alla caduta del vecchio sistema politico, ma ancora oggi condizionanti l’esistenza tormentata della seconda Repubblica quale si è andata definendo dopo il 1994. Un’esistenza così tormentata da rischiare di travolgere ancora una volta tutti i partiti del nuovo sistema.

Lo hanno dimostrato le crisi politiche nel 2011 e nel 2021, quando il ricorso a governi “tecnici” ha riportato alla memoria l’esecutivo di transizione guidato da Ciampi nel ’93-’94. In massima sintesi si possono individuare tre elementi di crisi che sono stati determinanti allora e che continuano a prolungare uno stato di instabilità politica paralizzante: l’Europa, scelta tormentata alla scadenza di Maastricht nel ’92 e diventata scelta profondamente divisiva con la nascita dei sovranismi; il problema del gigantesco debito pubblico che affligge l’Italia negli anni Duemila come negli Ottanta e nei Novanta; la sfiducia nella rappresentanza politica all’origine dei movimenti populisti e antipolitici, destinati a irrobustirsi col passare degli anni fino ad arrivare al governo nel 2018.

Nella ricerca del passatopresente sono emersi prepotentemente però anche i tanti legami col passatoremoto, una chiave indispensabile per leggere le tre crisi che sul finire degli Ottanta portano alla caduta finale. In questa luce il decennio degli Ottanta, prolungato fino al ’92, può essere interpretato come una lunga fase di passaggio da un’epoca all’altra, coincidente con l’intero scenario mondiale che fa da cornice alla vicenda italiana. A partire dagli anni Settanta, con la fine dell’era industriale e l’avvento di una nuova epoca postmoderna, tutti i paesi dell’Occidente europeo vivono una lunga fase di trasformazioni profonde da ogni punto di vista, dai rapporti internazionali alla globalizzazione delle economie e delle finanze, alle straordinarie acquisizioni scientifiche e tecnologiche; un insieme di fattori che sconvolgono valori, istituzioni, sistemi di relazioni e di organizzazione, certezze culturali e materiali, insomma la vita di ogni individuo e di intere società.

Una rivoluzione di queste dimensioni mette ovunque a dura prova i governi, tanto più quando nel 1989 con la caduta del muro di Berlino e poi la dissoluzione dell’impero comunista si conclude la guerra fredda che ha condizionato l’intero continente diviso per quarant’anni in due sfere, l’una sotto l’influenza degli Stati Uniti l’altra dell’Unione Sovietica. In questa cornice l’Italia, come gli altri paesi europei in balia di una progressiva instabilità sistemica, rappresenta però un caso unico rispetto ai suoi partner della Cee, in nessuno dei quali la crisi si manifesta con tale violenza distruttiva da arrivare alla totale distruzione del sistema dei partiti.

Un’eccezione vistosa da analizzare alla luce di quei problemi tra loro intrecciati cui si è fatto cenno, anche se a innescare l’implosione finale sono soprattutto gli eventi dell’89 che nel caso italiano hanno un effetto devastante, da collegare naturalmente al maggior peso del vincolo esterno negli equilibri politici italiani rispetto agli altri paesi dell’Occidente.

Le ragioni sono note, riassumibili da un lato nella posizione geopolitica del nostro paese, alleato della Nato e proiettato nel Mediterraneo, un territorio cruciale nel confronto tra le due superpotenze in guerra; dall’altro lato, nella presenza in Italia del più forte partito comunista di tutto l’Occidente. Questi due opposti condizionamenti internazionali per mezzo secolo avevano garantito alla Dc, alleata degli Usa, una posizione di maggioranza nel paese e nei governi col risultato, però, di bloccare di fatto ogni ricambio con le forze di opposizione egemonizzate dal Pci, il cui legame organico con l’Urss era di ostacolo alla sua legittimazione a governare. Con la fine della guerra fredda il sistema politico italiano perdeva dunque la sua rigidità, entrando in quella fase di fibrillazione che si sarebbe conclusa nel 1994 con la scomparsa di tutti i partiti della prima Repubblica.

Il primo a dissolversi era stato il Pci che, dopo la caduta del muro, iniziava la lenta mutazione in Partito democratico della sinistra; ma nessun vantaggio ne aveva ricavato la Dc che anzi si indeboliva con la scomparsa del “nemico”, da sempre un fattore fondamentale nella raccolta dei consensi. Insomma, senza più il sostegno dei vecchi vincoli internazionali, i cattolici come i loro storici avversari si erano trovati a fare i conti con se stessi e con il compito ineludibile di consolidare il legame storico con l’Europa, rimasta ormai l’unica sponda esterna.

Per tutti gli anni Novanta e anche oltre, con l’eccezione dei saggi specifici sulle relazioni internazionali e sull’economia mondiale, gli storici politici, a mio giudizio, non hanno indagato a sufficienza sulle ricadute che il nuovo complesso scenario dei rapporti tra le potenze avrebbe avuto anche sul sistema economico e finanziario italiano – e naturalmente su quello europeo. Eppure, si tratta di un campo di ricerca necessario, se si considera quanto abbia pesato nella caduta del sistema politico il Trattato di Maastricht che aveva fissato i paletti del percorso verso l’Unione Europea. Già nella seconda metà degli Ottanta in tutti i paesi della Cee si era consolidata la consapevolezza di quanto fosse urgente rafforzare le strutture unitarie per rispondere alla sfida delle trasformazioni in atto nell’economia mondiale.

Dopo l’89 poi, di fronte al nuovo mondo policentrico, ci si affrettava a fissare quella serie di regole sempre più stringenti, confluite poi nell’accordo da firmare alla riunione di Maastricht, fissata per la fine del ’92. Una firma non scontata da parte di tutti gli Stati membri, restii ad accettare gli impegni onerosi richiesti da Bruxelles non solo nel campo dell’economia, ma anche della politica e delle istituzioni, come avrebbero dimostrato le resistenze registrate prima e dopo il varo del Trattato. Particolarmente difficile appariva poi l’adesione dell’Italia, arrivata a questa scadenza con un debito pubblico incontrollabile che escludeva di fatto il rispetto dei parametri fissati per entrare nel percorso verso la moneta unica.

Si tratta di un passaggio nel quale restano ancora senza risposte persuasive molti interrogativi sulla decisione finale che si assumeva il governo Andreotti; una decisione largamente condivisa dai politici della destra e della sinistra, lucidamente consapevoli o ancora parzialmente inconsapevoli che il nuovo vincolo europeo avrebbe fatto emergere tutte le debolezze di un’economia, di una finanza e di un’industria ferme ancora alla visione keynesiana nel pieno della rivoluzione liberista

da “Passatopresente. Alle origini dell’oggi 1989-1994”, di Simona Colarizi, Laterza 2022, pagine 224, euro 20

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