È impietoso il paragone tra la campagna per le presidenziali in corso in Francia e la cronaca dei giorni che precedono la scelta del prossimo presidente in Italia.
Oltralpe è aperto da mesi e alla portata di tutti un confronto durissimo e tutto politico non solo sui programmi ma addirittura sull’identità nazionale. Non solo, la vitalità del dibattito politico è stata ravvivata sia dalla concorrenza imprevista sorta alla destra di Marine Le Pen con la irruente candidatura di Eric Zemmour, che obbliga la Francia a ripensare a sé stessa come nazione, sia dalla vivace ricomparsa sulla scena di una sfida neo-gollista a Emmanuel Macron. Sfida che può addirittura sconfiggerlo.
Data al 4% dei suffragi quando si è presentata alle primarie dei neo-gollisti, Valérie Pecresse è sorprendentemente balzata al 20% e più una volta vinte le primarie. Il tutto, sulla base di un programma che combatte l’Europa federale, a favore di una Europa delle Nazioni, confederale, di una rigidissima regolamentazione dell’immigrazione e di una piattaforma sociale avanzata. Sfida apertissima dunque e tutta e solo politica, sui programmi, sulle scelte concrete.
A Roma invece è il trionfo dei tatticismi, rigorosamente senza programmi, senza idee, senza strategie, che vede protagonisti mille grandi elettori, buona parte dei quali, i 5 Stelle in testa, deciderà sulla base di un solo principio: prolungare ancora per un anno il proprio consistente stipendio. Una miseria, ammettiamolo. Non c’è da stupirsi se al momento del voto popolare il primo partito è e sarà quello degli astenuti.
Il tutto, all’insegna della conferma di autorevoli costituzionalisti del fatto che la nostra Carta fondamentale in realtà ha disegnato così male il balance of power e gli stessi poteri del Quirinale che essi sono “a fisarmonica”, una sorta di fai da te istituzionale a seconda del carattere del prescelto.
Questo, a partire da una abnormità: unico paese in Europa, in Italia il potere di sciogliere le Camere e indire le elezioni non è del capo dell’esecutivo ma è consegnato nelle mani del presidente, che così, da arbitro, da notaio, si trasforma in dominus monocratico del sistema politico. Un potere decisivo del quale hanno fatto pieno e spregiudicato uso sia Oscar Luigi Scalfaro che Giorgio Napolitano.
Ancora una volta, insomma – ed è l’ennesima – la “Costituzione più bella del mondo” – si rivela per quello che è: causa prima non solo della cronica instabilità del quadro politico che ci toglie credibilità sui mercati e sulla scena internazionale, ma anche di una crisi esiziale della politica.
Se il tema, l’unico tema, è Draghi al Quirinale o a Palazzo Chigi qualcosa, qualcosa di grave, non funziona. E per fortuna che il clima è un po’ elettrizzato dalle mattane di Silvio Berlusconi che non vede l’ora di fare il messaggio di fine d’anno dalla dimora che fu dei Papi col cagnolino Dudù in grembo.
Insomma, si spreca in questi giorni ancora una volta l’occasione per andare alle radici del malfunzionamento delle istituzioni italiane: una Costituzione inadeguata, pesantemente condizionata dal clima della Guerra Fredda e nata mirando ad un solo obbiettivo: impedire che uno schieramento prevalga sull’altro. Una instabilità di governo tanto voluta e proclamata che si basava su un meccanismo subdolo. La Carta del 1948 stabiliva infatti che il Senato durasse infatti 6 anni, contro i 5 della Camera, appunto per impedire che ribaltamenti elettorali assegnassero a una parte il controllo dell’esecutivo. Abolito nel 1963 questo sfasamento, la Costituzione ha resistito dalla commissione bicamerale Bozzi del 1983-85 in poi a tutti i tentativi di riforma. Esclusa la follia voluta dai 5 Stelle e subìta dal Pd, del taglio dei parlamentari.
Fallimenti che hanno obbligato a percorrere una via traversa: i mutamenti nella Costituzione materiale sono stati tentati attraverso modifiche continue della legge elettorale, ben tre in 24 anni. Un record mondiale.
Arrivati all’oggi, ci troviamo nella situazione assurda di un Parlamento allargato che sceglie un presidente che non si deve e non si può candidare, con candidati – da altri – che non devono assolutamente presentare un programma e un risultato finale determinato in buona parte dai termini per ottenere la pensione – l’autunno del 2022 – per il 65% dei parlamentari. Sconfortante.