Chi se l’aspettava di sentire adesso delle tracce inedite, contraddistinte dal dialogo tra la voce di David Bowie e il liquido pianoforte di Mike Garson, uno che stava con lui già ai tempi di Ziggy Stardust!
Del resto anche noi feticisti, se davvero vogliamo provare il brivido di ritrovarci a scrivere di un album “nuovo” di David Bowie nella gelida alba dell’anno 2022, a qualche compromesso dobbiamo scendere. A uno in particolare: quello secondo il quale al tempo non si comanda.
Sono cinque anni che il Duca è sottoterra, la sua dipartita è stato uno choc particolare per come ha colto di sorpresa milioni di fan, mentre il suo ultimo album, “Blackstar”, stava disegnando tutta una nuova curva nella parabola della sua carriera. E invece, in questo mondo della discografia che ormai è un’ininterrotta bonanza rivolta al passato e dove, ormai è chiaro, valgono più le cose di una volta di quelle di oggi, ecco rispuntare David, tirato a lucido.
Per chi lo segue da vicino questo “Toy”, appena arrivato nei negozi e nei servizi streaming, non è una novità assoluta. L’album non è mai uscito nell’anno lontano della sua registrazione, il 2000, ma si era diffuso clandestinamente in rete dopo essere stato trafugato e vari suoi brandelli erano apparsi qua e là nell’ultima discografia di Bowie, finché qualche mese addietro è integralmente andato a far parte del cofanetto “Brilliant Adventure”, che raccoglie le registrazioni ufficiali e molti inediti dell’artista nel decennio 1992-2001.
Ma tant’è, adesso arriva in perfetta solitudine, arricchito soltanto, nella versione “Toy: Box” di una serie di versioni alternative e outtakes: non spazientitevi, questa è la contemporaneità, e qualcuno, nella stanza dei bottoni della discografia, crede che il collezionismo e il guardonismo siano i vizi più diffusi tra i consumatori stagionati e che a nutrire questi istinti ci sia soltanto da guadagnare.
Ciononostante, superati questi nervosismi e stando attenti a prendere in considerazione “Toy” nella sua natura più semplice, quella voluta da Bowie quando gli venne il ghiribizzo di registrarlo, insomma disponendosi all’ascolto con la testa sgombra, senza troppi libretti esplicativi e con la cuffia sulle orecchie, l’esperienza è davvero rinfrancante. Questo perché, con semplicità, si scopre un Bowie diverso, inatteso, sorprendente e decisamente piacevole, oltre che in straordinaria forma vocale e con in testa un concept di confezione orchestrale accattivante e di stile.
Prima di proseguire però, una confessione: abbiamo seguito la parabola dell’artista dall’inizio; ci siamo commossi alle lacrime per la bellezza di “Hunky Dory”; siamo rimasti coinvolti nel puro gusto rivoluzionario di Ziggy, abbiamo accettato con interesse la svolta r’n’b del periodo americano, ne abbiamo seguito con adeguata concentrazione gli esperimenti berlinesi, e abbiamo fatto il nostro ultimo vero ballo con David all’altezza di “Let’s Dance”. Poi, certamente per colpa nostra, ma quella che era idolatria è un po’ scemata, si è sfumata, è diventata sincero affetto, come dopo vent’anni di matrimonio. Ed è finita così, con vicinanza e calore, ma senza la passione incendiaria dell’Hammersmith Odeon, anche all’altezza del già citato “Blackstar”, che a noi era sembrato un filo cervellotico e troppo – giustificatamente – scuro.
Adesso i prodigi dell’industria discografica fanno sì che ci venga recapitato questo lavoro, che ha una storia particolare, perché costituisce il disco del grande rifiuto, ovvero quello che l’etichetta di David, quando se lo vide arrivare non annunciato, presentato dallo stesso autore come “disco-sorpresa”, venne ascoltato e poi, con delle scuse, ripetutamente rimandato, fino ad archiviarlo, senza fargli mai raggiungere gli scaffali dei negozi.
Motivo? L’atipicità, la difficoltà di collocarlo, l’apparente incongruenza rispetto al sentiero che il Bowie dell’epoca sembrava intenzionato a percorrere – quello dello sperimentatore nobile e post-tutto. “Toy” non c’entrava, era un florilegio nato nella sua testa e non importa che il proprietario della testa fosse nientemeno che lui: nell’anno 2000, in quel mondo strano, se lo rivediamo da qui, il cinismo ebbe la meglio su tutto. E lui accettò lo smacco, ci rimase male, ma con la costanza che l’ha sempre contraddistinto, raccolse i cocci e ricominciò a marciare e a cercare un senso all’ispirazione a cui non sapeva rinunciare.
Già, ma perché tutto ciò, insomma che diamine di disco è “Toy”? È, a tutti gli effetti, il prodotto di un artista che non ha mai smesso di tenere i conti aperti col proprio passato, con le peripezie del faticoso avvio della sua carriera, con le sue incertezze come autore e poi delle finalmente robuste certezze raggiunte in età matura.
E dunque nell’estate del 2000 Bowie accetta una sfida non banale: va a Glastonbury, l’open air festival più importante del Regno Unito, e si esibisce in quello che un vero ritorno in scena dopo che la sua parabola si era ampiamente compiuta e si era anche estremamente americanizzata. Il concerto è un trionfo, molto più di quanto lui potesse attendersi. La cosa lo elettrizza, gli dà fiducia e voglia, gli fa apprezzare con trasporto la band di musicisti che l’accompagna e il sentimento è ricambiato. La decisione arriva subito: David vuole cogliere l’attimo fuggente ed entrare in studio pochi giorni dopo, registrare, dare aria alle stanze, mettere in moto la macchina. Da luglio a ottobre 2000 è in studio a New York City e Mike Gerson, il suo eterno pianista, è con lui. Ma a registrare cosa e in che modo? La risposta Bowie se la porta dentro da un pezzo: vuole tornare a suonare le cose migliori del suo vecchio repertorio degli esordi, rimasto stritolato dal successo stratosferico arrivato allorché ebbe l’idea di cantare della vita su Marte.
Perché c’era un prima di quell’affermazione, c’era un buon autore di canzoni, ma ancora immaturo e insicuro, c’era un interprete indeciso su quale delle sue personalità multiple lasciar prevalere. E dunque c’era un sacco di roba da riportare alla luce e stavolta con la spavalderia, le capacità, la maturità del presente e l’eccellente band su cui poteva contare, oltre al solito occhio di Tony Visconti che non smetteva di vegliare su di lui.
“Toy” è questo. David Bowie superstar che canta David Bowie principiante, o giù di lì. Ne sviscera le intuizioni, ne sviluppa le idee, ne completa e ne esalta l’originalità. Con in più lo straniante effetto provocato dal mix temporale: comincia il terzo millennio, momento dell’estrema tecnologia (che a Bowie non dispiace affatto), ma lui ha il vezzo di tornare a guardare per le strade della Londra modaiola dei Sixties-Seventies (con titoli come “London Boys” o la derelitta “Conversation Piece”, lato-b di “Space Oddity”), dove lui è il più sfacciato dei mods è pronto a tutto pur di garantirsi una decente carriera. Tutto molto godibile: “Toy” è un disco da ascoltare con simpatia, partecipazione e con ironia.
Alcuni recensori hanno sentito il bisogno di dichiararsi delusi, strombazzando che il capolavoro non c’è, hanno tirato in ballo il solito megabusiness – in questi giorni la Warner si è comprato l’intero catalogo-Bowie per 250 milioni di dollari, solo la metà di quello di Springsteen – e la cinica valorizzazione di ogni asset disponibile. Il nostro consiglio è: fregatevene. Se vi è piaciuta la sua musica, in qualsiasi fase della vita vi sia accaduto, lasciate perdere le dissertazioni e godetevi l’album, dove tutto fila liscio, c’è un palpabile piacere nel suonare e cantare, dove la qualità è fuori discussione e dove un artista che non ha più niente da chiedere alla fama, guarda dentro se stesso e poi tutto intorno. Abbozza un gorgheggio, si sistema il ciuffo e lascia andare uno di quei suoi ghigni traversi, che da ragazzini cercavamo d’imitare davanti allo specchio.