Dicevano di essere i più forti solo poche settimane fa, prima che evaporasse l’illusione di «essere maggioranza in Parlamento» – c’è voluto un articolo del professor Roberto D’Alimonte per smontare il giochino, pure la sinistra aveva abboccato. Persino il mago di Arcore aveva dovuto prendere atto, pur sostenendo il contrario, di non avere i numeri per diventare presidente della Repubblica: ecco, è stato nel preciso momento in cui Silvio Berlusconi ha rinunciato al Quirinale che la neve ha cominciato a sciogliersi al tiepidissimo sole di gennaio: il numero è finito, si accendono le luci, il pubblico se ne va, dopo che l’apprendista stregone, Matteo Salvini, ha definitivamente mandato la coalizione a catafascio distruggendo in pochi giorni il lavoro di quasi 30 anni – ricordate la Casa delle libertà? Abbiamo visto la Casellati colpita e affondata dal suo partito (sembra che ora odii Anna Maria Bernini), la Meloni greve e ribelle, il capo leghista considerato un pazzo che ora allude: «Qualcuno ha tradito». Bel clima. Ciao ciao, come dicono a Sanremo.
La storia sembra dar dunque ragione ai berlusconiani: senza il Cavaliere il centrodestra non esiste. E Berlusconi non c’è più, la sua rinuncia al Colle è stata come per Napoleone la ritirata della Beresina. Sì, certo, lui è ancora lì a mandare messaggi dal mausoleo di Arcore, per favore non abbandonate il maggioritario e lo schema bipolare, «Giorgia è ingrata, ho fatto tanto per lei» e altre amenità.
Intanto progetta di vendere uno dei simboli della sua stagione, quel Giornale sottratto alla fine del 1993 a Indro Montanelli («Non avevo scelta, o diventavo il megafono di Berlusconi o dovevo andarmene», disse il vecchio Indro che ovviamente se ne andò) per farne l’house organ azzurro; ora lo venderà al già proprietario del Tempo e di Libero, Antonio Angelucci, e già ieri il Tempo era sdraiato sullo zerbino di Villa Grande: «Il centrodestra va completamente rinnovato se non rifondato: e il protagonista di questo processo politico sarà guidati ancora una volta da lui: Silvio Berlusconi».
Ma figuriamoci, non sembra proprio tempo di un ennesimo predellino mentre intanto le schegge di Forza Italia impazziscono come nella scena finale di “Zabriskie Point” al suono senza tempo dei Pink Floyd – Careful with that axe, Eugene – alla ricerca di un centro di nuovo/vecchio conio, e intanto Giorgia si radicalizza dalla parte opposta riesumando non tanto il Msi, lì erano soprattutto vecchi arnesi, ma il Fronte della Gioventù dei suoi anni felici e crede che sostituendo “Patria” a “Paese” o “Nazione” il gioco sia fatto.
Nel passo d’addio che non pare mai definitivo Berlusconi riceve ad Arcore Pier Ferdinando Casini, come ai tempi belli del Ccd, quando una volta lui e Clemente Mastella furono costretti – si era fatto tardi – a dormire nella lussuosa magione (i pigiami erano incellofanati pronti per l’uso e così gli spazzolini da denti) solo che è difficile che stavolta Pier, fresco di delusione quirinalizia, coltivi progetti all’ombra del Cavaliere, sarebbe fuori tempo massimo. Proviamo dunque qui a dire che il centrodestra è finito e non tornerà più, in quel format almeno.
Non è una delle solite crisi, i tre leader, Silvio, Matteo e Giorgia, prendono strade diverse e nemmeno si accorgono che a questo punto anche per loro il proporzionale sarebbe meglio, li renderebbe più liberi e più efficaci nel raccogliere ciascuno voti per conto proprio. Alla lunga verrebbe da dire che la politica ha scavato come la vecchia talpa di Marx rendendo evidente che Mara Carfagna non ha più nulla da spartire con un Fabio Rampelli e nemmeno Massimiliano Fedriga con Ignazio La Russa o Renato Brunetta con la Meloni: d’altra parte se in Francia Emmanuel Macron e Marine Le Pen se le danno di santa ragione da anni perché mai in Italia i loro cuginetti dovrebbero andar d’accordo?
Un problema ulteriore è che da noi c’è questo Salvini che è capace di tutto, una mina vagante che una volta ha incenerito un governo e adesso la sua stessa coalizione, un Attila della politica, cosa s’inventerà stavolta? Sostanzialmente niente, non avrà la forza né le motivazioni per far cadere il governo Draghi, continuerà a fare la guerra un giorno a Giorgia e un altro a Silvio. Cerca aria laddove è tutto bruciato e già comincia a scivolare nei sondaggi.
Risorge inopinatamente il trattino, croce e delizia dei progressisti, ma stavolta dall’altra parte della barricata, c’è il centro e c’è la destra, e non è nemmeno scontato che al voto vadano uniti, senza peraltro un capo, un leader, un aspirante premier, un collante straordinario come Silvio Berlusconi. Solo venti giorni fa era la squadra da battere, adesso sembrano pugili suonati in attesa di un gong che gli consenta di riordinare le idee. Una cosa è sicura: quello che verrà dopo sarà sicuramente diverso da quello che è stato prima. Il centrodestra non c’è più. Brividi, come dicono a Sanremo.