Breve riassunto del dibattito sulle riforme per come si è riavviato in questi giorni. La rielezione di Sergio Mattarella da parte delle Camere riunite e dei rappresentanti delle Regioni, esito di cui nessuno mette in dubbio né il valore in sé né la popolarità, secondo molti sarebbe la prova che occorre cambiare il modo di eleggere il presidente della Repubblica. L’elezione di Mattarella da parte di un esercito di franchi tiratori, contro la volontà di tutti i leader dei maggiori partiti, dimostrerebbe la necessità di rendere più stringente il rapporto tra eletti e gruppi parlamentari di appartenenza. Il discorso in cui Mattarella si è detto convinto che la sfida per la salvaguardia della democrazia «dipenderà, in primo luogo, dalla forza del Parlamento», in cui ha denunciato la «forzata compressione» dei tempi parlamentari come «un rischio non certo minore di ingiustificate e dannose dilatazioni dei tempi», in cui ha definito «cruciale» il ruolo del Parlamento come «luogo della partecipazione», come «luogo dove si costruisce il consenso attorno alle decisioni che si assumono», come «luogo dove la politica riconosce, valorizza e immette nelle istituzioni ciò che di vivo emerge dalla società civile», dovrebbe essere uno stimolo per abbandonare il sistema parlamentare e passare a un sistema presidenziale.
Il suo appassionato elogio della centralità del Parlamento, del ruolo dei partiti, del bilanciamento dei poteri, sarebbe infine un invito a riforme che comprimano ulteriormente il ruolo del Parlamento e quello dei partiti, riducendo pluralismo e bilanciamento dei poteri in nome del bipolarismo, del maggioritario e della governabilità.
Si può essere d’accordo o meno con tutte o anche solo alcune delle proposte di cui sopra (io personalmente condivido l’idea di una riforma dei regolamenti parlamentari che limiti la proliferazione dei nuovi gruppi, e trovo dannose tutte le altre), ma non si può non riconoscerne la radicale, irriducibile, plateale non consequenzialità rispetto alle premesse. A riprova di quanto il dibattito sulle riforme istituzionali sia ormai una recita a soggetto, sempre uguale a se stessa, che va avanti da trent’anni, senza che nessuno dei suoi attori si lasci mai sfiorare dall’idea di prendere in considerazione nemmeno per un momento che cosa sia accaduto nel frattempo.
Così sentiamo ripetere ancora oggi, esattamente come sostenevano i promotori dei referendum maggioritari del 1993, che il proporzionale porterebbe alla frammentazione, alla proliferazione dei piccoli partiti e all’instabilità dei governi. Chissà cosa ne direbbe Clemente Mastella, eletto in Parlamento per la prima volta nel 1976, che fino a quando c’è stato il proporzionale è rimasto in un solo partito, la Democrazia cristiana, e da quando il maggioritario ci ha liberato dalla frammentazione e dall’instabilità ha fondato, tra gli altri, Ccd, Udr, Udeur e Udeur 2.0, è stato nella Margherita e in Forza Italia, ha partecipato e fatto cadere governi di centrosinistra e centrodestra, ritrovandosi più volte arbitro della politica italiana con formazioni che raramente hanno superato il 2 per cento.
Il dibattito sulle riforme ha raggiunto ormai un livello di disconnessione dall’attualità quasi psichedelico. I suoi protagonisti somigliano a dei disperati che vagano nel deserto, sotto il sole, implorando un cappotto di lana, perché trent’anni prima hanno avuto un brutto raffreddore.
Ma la dimostrazione più bella di questa curiosa forma di burnout istituzionale, del tutto impermeabile alla realtà esterna, l’ha data ieri Graziano Delrio, autorevole esponente del Pd, nella sua intervista a Repubblica, in cui ha detto testualmente: «Non si deve tornare al proporzionale per avere partiti che possono fare indifferentemente scelte di un tipo o dell’altro. Il Pd, per intenderci, non farà mai l’alleanza con chi propone la flat tax».
Qualcuno lo avverta che il Pd è già al governo con chi propone la flat tax. E gli dia un bicchier d’acqua.