Brogli e buoiChe cosa insegnano le opposte parabole di Boris Johnson e Trump (per non parlare di Conte)

I conservatori inglesi mettono sotto accusa il loro leader per aver partecipato a delle feste durante il lockdown, i repubblicani difendono l’ex presidente persino dopo un tentato colpo di stato

di Shane Rounce, da Unsplash

La grande domanda della politica mondiale è se l’onda populista rappresentata da Donald Trump, Boris Johnson e i loro epigoni – ma in Italia dovremmo parlare piuttosto di precursori, a cominciare ovviamente dal Movimento 5 stelle – sia destinata a rivelarsi la fiammata di un momento o invece l’inizio di un incendio che continuerà a bruciare Stato di diritto, divisione dei poteri, razionalità e correttezza del dibattito pubblico, fino a ridurli in cenere. Cioè fino a quando, in pratica, anche le più antiche democrazie del pianeta appariranno pressoché indistinguibili dai peggiori regimi autoritari.

A questa grande domanda si collegano naturalmente diverse domande ulteriori: esistono degli anticorpi (nei partiti, nelle leggi, nella cultura)? E laddove scarseggiano, è possibile introdurli, riattivarli, rafforzarli? Con queste domande in testa, guardate un po’ che cosa sta accadendo, giusto in questi giorni, ai diversi protagonisti dell’onda populista partita nel 2016, nei loro rispettivi paesi e soprattutto nei loro rispettivi partiti.

Da un lato abbiamo il caso di Trump: nonostante la secca sconfitta elettorale e nonostante tutto quello che è stato capace di fare da allora in poi, il suo partito non ha esitato a censurare gli unici due repubblicani che hanno avuto il coraggio di denunciarne il delirio golpista, accusandoli di essersi uniti alla persecuzione di «semplici cittadini impegnati in un legittimo dibattito politico» (quelli che hanno assaltato il parlamento nel tentativo di impedire la convalida del risultato elettorale). Insomma, in America, persino l’aperta istigazione al colpo di stato non è ragione sufficiente per vedersi scaricare dal proprio partito, perlomeno se quel partito è il partito repubblicano.

Negli stessi giorni, tuttavia, uno spettacolo ben diverso si sta svolgendo a Londra, dove al contrario Johnson è sottoposto ad attacchi sempre più pesanti dai parlamentari conservatori, e per responsabilità decisamente imparagonabili a quelle del suo amico americano (del quale non condivide solo l’hair stylist).

Una settimana fa la baronessa Ruth Davidson, già leader dei conservatori scozzesi, è scoppiata in lacrime in diretta televisiva per l’indignazione, parlando dei festini di Johnson a Downing Street durante il lockdown (quando cioè tutti gli altri cittadini non potevano vedere nessuno).

Se vi fosse una regola o almeno una proporzione fissa tra azioni e reazioni, cosa dovrebbero fare a Washington i repubblicani, strapparsi i capelli davanti alle telecamere? Le riunioni del loro partito, come minimo, dovrebbero assomigliare a una telenovela brasiliana.

Si potrebbe osservare che Johnson ha fatto assai di peggio che partecipare a qualche festicciola, anche durante il lockdown, ad esempio quando si è ostinato a non prendere alcuna seria misura restrittiva, finché in terapia intensiva non c’è finito pure lui; ma niente di quello che ha fatto o detto è ovviamente paragonabile a istigare i propri sostenitori ad assaltare il parlamento per rovesciare l’esito del voto, come ha fatto Trump.

Né vale argomentare che i conservatori hanno cominciato a criticare Johnson quando hanno visto calare i suoi consensi, semplicemente perché temono di perdere le elezioni. Trump infatti le elezioni le ha già perse, e di brutto. Eppure è ancora lì, anzi se possibile sembra persino peggiorato, ma soprattutto è peggiorato enormemente il suo partito.

L’ipotesi più inquietante è che la vera differenza tra Johnson e Trump stia nel fatto che alla fine, per quanto controvoglia, in modo insufficiente e tardivo, Johnson qualche misura restrittiva è stato costretto a prenderla, e che sia quello, in verità, che il suo partito non gli ha perdonato. Dunque che a fregare i leader populisti non siano mai i loro eccessi, ma l’esatto contrario.

A fronte di tutto questo, comunque, la lenta e inesorabile agonia dei Cinquestelle appare da noi decisamente rassicurante. Il fatto poi che a mettere fuori gioco Giuseppe Conte sia stato ieri un tribunale, per questioni di quorum e norme statutarie, è una doppia nemesi, considerando che l’Avvocato del popolo ha passato praticamente tutto il suo tempo a occuparsi di regolamenti. È stato un anno a parlare solo di statuto, norme e codicilli, e prima si è visto respingere la richiesta di accedere al finanziamento pubblico, perché non aveva pensato a iscriversi per tempo all’apposito registro dei partiti, e adesso questo.

Vale dunque più che mai il commento twittato da Sebastiano Messina all’indomani del primo incidente: «Il Movimento avrebbe bisogno di un avvocato, ma uno bravo».

Forse, infatti, la vera regola generale che si può trarre da tutte queste vicende è che ciascuno deve fare il suo mestiere: se ti sei conquistato la leadership con discorsi degni del dittatore dello Stato libero di Bananas, il minimo che i tuoi sostenitori si attenderanno da te, come segno di coerenza, è un tentato colpo di stato; non certo che all’improvviso tu ti metta a fare il leader responsabile che impone a tutti di stare chiusi in casa e andare a letto presto (tanto più se nel frattempo tu ti sbronzi coi colleghi, per di più).

Se il tuo movimento ha conquistato i suoi maggiori consensi gridando che i partiti facevano tutti schifo, non li recupererai passando il resto del tempo a illustrarne gli organigrammi, lo statuto, i cinque vicepresidenti, i molteplici dipartimenti e gli immancabili forum tematici.

La nostra fortuna è che mentre nella war room di Trump si discuteva l’ipotesi di chiamare l’esercito, a Palazzo Chigi, nel momento culminante della crisi, Conte telefonava a Ciampolillo.