Sono invisibili a occhio nudo, ma la loro assenza si nota subito. I microchip e i materiali semiconduttori che li compongono si trovano in moltissimi oggetti d’uso quotidiano, dai computer alle automobili, e sono cruciali nell’economia odierna. Lo dimostrano i recenti problemi nelle fabbriche di apparecchi tecnologici, scaturiti proprio dalla carenza di questi componenti: a causa di una serie di fattori tra cui la pandemia, i chip scarseggiavano e in alcuni Paesi europei le fabbriche di auto hanno tagliato di un terzo le consegne.
Per non trovarsi impreparata in futuro, l’Unione europea mette mano al portafogli ora: con l’European Chips Act, la Commissione prevede uno stanziamento di 43 miliardi di euro, tra di investimenti pubblici e privati, volto a incoraggiare l’industria di settore. L’obiettivo è quadruplicare la produzione attuale e raddoppiare così la quota globale di mercato detenuta dalle aziende europee, oggi intorno al 10%.
Cosa c’è nell’European Chips Act
Il cuore di questo pacchetto di misure, definito «una svolta per la competitività mondiale del mercato unico» dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen, è l’omonimo regolamento, che intende rafforzare l’ecosistema europeo dei semiconduttori muovendosi in tre direzioni.
Undici miliardi di euro serviranno per foraggiare ricerca e sviluppo in tale ambito: realizzazione di prototipi, sperimentazione di nuovi dispositivi e formazione del personale. Ma in questa parte della filiera le aziende europee sono già competitive, così come sulla fabbricazione di componenti specifici, tra cui quelli per i sistemi elettronici delle auto o dei macchinari industriali.
Il punto debole, al momento, è invece la produzione su larga scala: dei mille miliardi di chip prodotti a livello mondiale nel 2020, solo uno su dieci è stato realizzato nei 27 Stati membri, cosa che rende il mercato dell’Unione fortemente dipendente dalle importazioni. Perciò la tranche più corposa del finanziamento comunitario sosterrà direttamente le cosiddette fab, gli impianti produttivi ancora non in grado di competere con i corrispettivi asiatici: circa 30 miliardi di euro, ha annunciato il commissario al Mercato Interno Thierry Breton.
Infine, un fondo specifico è destinato alle start-up del settore, per permettere loro di sviluppare le proprie innovazioni e attrarre investitori. Il calcolo generale è approssimativo perché comprende una stima di circa 15 milioni di euro che arriveranno da investimenti privati e pubblici degli Stati nazionali. Oltre all’incremento produttivo, l’Unione punta al ruolo di leader mondiale per quanto riguarda i microchip di nuova generazione: quelli di lunghezza inferiore ai 2 nanometri, che cominceranno a circolare dal 2024.
Accanto al regolamento, c’è una raccomandazione della Commissione per un toolbox, cioè una serie di strumenti comuni per affrontare eventuali carenze di questi materiali in futuro. Imparando da quanto accaduto con i vaccini anti-Covid-19, l’esecutivo comunitario vuole assicurarsi che in caso di crisi di approvvigionamento, i chip prodotti negli stabilimenti europei restino in Europa.
Ai 27 Stati membri si chiede allora di eseguire un monitoraggio della produzione sul proprio territorio, spingere i fabbricanti a privilegiare le consegne relative ai «settori critici» e soprattutto «valutare la possibilità che l’Unione eserciti un controllo sulle esportazioni».
Come spiegato a Linkiesta da fonti della Commissione, nell’European Chips Act è compreso un obbligo di «ordine prioritario»: quelle aziende che ricevono un supporto finanziario, dovranno, al momento del bisogno, concedere al mercato comunitario una sorta di diritto di prelazione sui propri prodotti. In questo modo verrebbero evitati gli shock economici sperimentati negli ultimi mesi.
Le preoccupazioni per la concorrenza e quelle geopolitiche
Non è un caso se a presentare l’European Chips Act c’era anche la vice-presidente esecutiva della Commissione e commissaria alla Concorrenza Margrethe Vestager. Un flusso così corposo di denaro pubblico nel settore rischia di distorcere il mercato comune e soprattutto di innescare una «sfida di sussidi» fra gli Stati Membri per accaparrarsi gli stabilimenti.
Anche perché la Commissione potrebbe attivare una clausola consentita dall’Articolo 107 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea, che permette gli aiuti di Stato «destinati ad agevolare lo sviluppo di talune attività», a patto che i benefici per l’Unione nel suo complesso superino gli effetti negativi che si avrebbero sul mercato. I Paesi più piccoli potrebbero infatti trovarsi penalizzati, perché incapaci di offrire alle proprie aziende gli stessi incentivi di quelli con maggiori risorse.
La commissaria Vestager, chiamata ad assicurare il delicato equilibrio tra la necessità dei finanziamenti e il rispetto della concorrenza, ha ricordato che ogni aiuto di Stato approvato dovrà essere imprescindibile per la realizzazione di un determinato progetto, appropriato, proporzionato e limitato allo stretto necessario.
Un altro pericolo, questa volta su scala mondiale, è quello di una sovrapproduzione di chip – visti gli ingenti contributi pubblici che saranno elargiti dai vari Paesi. Allo stesso tempo, però, nessuno può permettersi di rimanere indietro e di contare sulle forniture internazionali. Come ha sottolineato il commissario Breton, infatti, la decisione di finanziare questo settore in maniera così massiccia risponde anche a una necessità geopolitica. Vero è che l’Unione non dichiara di puntare all’autosufficienza, ma parla piuttosto di «rinforzare la cooperazione con i Paesi partner», ma le preoccupazioni per il contesto globale appaiono evidenti.
Cina e Stati Uniti sono attualmente impegnate in una sorta di guerra commerciale proprio sui semiconduttori: il governo cinese sta da tempo incoraggiando la produzione interna di chip, mentre il Congresso statunitense ha appena approvato un piano da 52 miliardi di dollari per l’industria dei semiconduttori. Al momento, il maggior produttore di questi elementi è Taiwan, che detiene più del 50% della quota mondiale e fabbrica oltre il 90% dei chip più avanzati, grazie alla Taiwan Semiconductor Manufacturing Company Ltd (Tsmc).
Si tratta però di un territorio dallo status discusso, indipendente di fatto dalla Cina ma rivendicato dal governo di Pechino: gli esponenti della Commissione hanno accuratamente evitato ogni riferimento in proposito, ma è facile pensare che una possibile invasione dell’isola, ipotesi da non escludere in un prossimo futuro, complicherebbe oltremodo la catena di approvvigionamento europea. I danni prodotti dipenderanno anche da quanti miliardi di chip sarà stata in grado di produrre l’Europa nel frattempo.