Contro il bipolarismo culturaleL’eutanasia è una questione seria, va affrontata tenendosi fuori dalla battaglia delle parti

Sul tema i casi da considerare sono complessi e delicati e occorre valutare di volta in volta. Ma tra i principi fondamentali figura il presupposto della volontà del soggetto, che deve essersi formata in libertà e senza condizionamenti

di Waldemar Brandt, da Unsplash

La proposta di referendum sull’eutanasia attiva, e la dichiarazione di inammissibilità del quesito operata dalla Corte Costituzionale, restituiscono attualità ad un tema che rimane assai problematico.

La sua problematicità è multipla: investe il concetto di libertà individuale, di diritto alla cura e al non accanimento terapeutico, la stessa architettura costituzionale di tutela del diritto alla vita delle persone.

Ed è anche argomento assai delicato, perché sollecita al dibattito persone che si trovano in una terribile condizione: quella di trovarsi direttamente in uno stato di enorme sofferenza o quella di assistere un loro caro, una persona amata, nell’orribile limbo tra la vita che non tornerà mai più e la morte che non riesce a sopravvenire.

Le riflessioni che qui vorrei proporre, consapevole delle difficoltà di cui prima ho accennato, lungi dalla pretesa di offrire risposte definitive, trovano la propria ragione nel tentativo di suggerire un dibattito sereno su un tema così grande e che investe questioni di, per così dire, civiltà sociale ma anche di civiltà giuridica.

Pur ritenendo di possedere una certa cultura del diritto, certamente non posseggo una conoscenza tecnica delle tematiche in oggetto tanto consolidata da potere offrire ragionamenti di sistema.

E, dall’altro lato, pur amando la ricerca culturale, letteraria e poetica di una dimensione ulteriore a quella terrena, non ho il cosìddetto dono della fede.

Tuttavia, pur considerando meritori e coraggiosi i tentativi di tutte le parti in causa di offrire risposte adeguate ad un problema che la realtà pone drammaticamente, ritengo che possa essere utile abbandonare gli “schieramenti” naturali.

Si fa un gran parlare della fine del bipolarismo politico, forse sarebbe il caso di augurarci anche il definitivo tramontare del bipolarismo culturale e muscolare. Quello secondo il quale, su ogni questione, possano formarsi due schieramenti contrapposti che si confrontino o, per meglio dire si scontrino, tra loro per l’affermazione di un punto di vista unitario. Bianco o nero.

Proverò a dire, brevemente, perché in questo caso possa forse sussistere una zona grigia in cui sia possibile tutelare, comunque al meglio, gli interessi di chi soffre.

Credo che si debba distinguere attentamente tra la condizione di chi, a causa di una malattia o di un incidente, si trovi nelle condizioni di essere tenuto in vita artificialmente dalle macchine, e che dunque sia impossibilitato ad esprimere la propria volontà circa il trattamento terapeutico cui essere sottoposto, e quello di chi si trovi in uno stato di tale prostrazione fisica e/o morale da desiderare un trattamento di eutanasia attiva.

Quello che da sempre viene insegnato ad ogni studente di primo anno di giurisprudenza, è che un atto, qualunque atto, perché possa avere valore per il nostro ordinamento debba essere stato compiuto da un soggetto dotato di capacità giuridica e di capacità di intendere e di volere.

In estrema sintesi, e qui anche un po’ semplificando, è fondamentale cioè che la volontà del soggetto che compia un atto si sia formata secondo un moto del pensiero del tutto libero e privo di qualunque condizionamento.

Se tale volontà è invece condizionata, cioè non si è formata liberamente, l’atto non produrrà effetti per l’ordinamento (con molte sfumature che qui è inutile ricordare). Ed è intuitivo che ciò avvenga proprio a tutela del soggetto che ha compiuto l’atto nella detta condizione di prostrazione psicologica.

Nel caso di persona che a seguito di un incidente si trovi tenuto in vita artificialmente, potrà farsi valere una volontà espressa per iscritto, e in modo incontestabile dal medesimo soggetto, prima del fatto che determini la condizione di impossibilità; oppure potrebbe persino diventare dominante la volontà “supplente” di chi sia chiamato a prendersi cura di quella persona (un genitore, un figlio, il coniuge, tanto per fare degli esempi).

Mi pare per altro che, in entrambi i casi sopra descritti, l’ordinamento negli anni si sia mosso nel senso di una più ampia e rinnovata tutela dei soggetti coinvolti.

Ma con riferimento all’eutanasia attiva a me pare che sia impossibile il formarsi di una libera volontà del soggetto che vorrebbe ricorrervi.

La condizione cioè di dolore o di prostrazione fisica e morale nell’individuo chiamato a compiere questa scelta, a me pare infatti possa ritenersi sufficiente per immaginare che la sua volontà non si sia formata liberamente, ma appunto sotto il condizionamento del particolarissimo stato di sofferenza che egli è chiamato a vivere.

Anche un soggetto gravemente depresso, secondo il principio dell’eutanasia attiva, dovrebbe avere il diritto di suicidarsi. Eppure tutti sappiamo come la depressione, anche nelle sue gravissime forme cliniche, sia una malattia che offre importanti percorsi di reversibilità. Al contrario del suicidio.

Non vedo dunque quale spazio di ulteriore tutela delle libertà personali possa affermarsi attraverso un ordinamento che superasse il principio della libera volontà quale presupposto necessario al compimento di qualunque atto, e addirittura di un atto che dispone della vita stessa.

E per le ragioni di mia cultura personale, cui prima ho fatto riferimento, lo dico senza nessun presupposto etico-religioso. Che per altro, a scanso di equivoci, avrebbe pieno diritto ad essere tenuto in attenta considerazione da chi ne faccia riferimento culturale per sé.

Forse potrebbero considerarsi soluzioni meno ideologiche ma che possano portare a risultati significativi in termini di riduzione del dolore. Faccio riferimento alle cure palliative, al non accanimento terapeutico o alla sedazione profonda. E forse si potrebbero immaginare percorsi sociali, culturali e legali volti al rafforzamento del ricorso a questi strumenti.

È ovvio che anche tali scelte devono fondarsi sulla più ampia libertà del soggetto che le pone in essere, e che le stesse perplessità circa il condizionamento del dolore fisico o morale, possano rilevare; tuttavia mi pare che in questo caso ci troveremmo nell’ambito di un più gestibile diritto all’autodeterminazione delle cure sanitarie. Che rimane cosa diversa dal suicidio.

La ricomposizione del conflitto valoriale che la questione pone, e che in queste ore è stato autorevolissimamente rimesso alla sollecitudine del parlamento, è però a mio avviso questione prima culturale che politica.

In conclusione mi piacerebbe si potesse discutere seriamente e laicamente di tutto ciò, anche con chi, come il sottoscritto, pur muovendo, per convinzione e pratica, dalla necessità della più ampia tutela possibile delle libertà individuali, non vuole arrendersi all’idea che ogni aspirazione legittima diventi “ipso facto” diritto riconosciuto.

E che al contrario è proprio nella complessità del diritto, e nei suoi fondamenti, che si annida la nostra più profonda libertà.

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