Se un disturbo della psiche è collettivo, può ancora definirsi disturbo? Non è piuttosto una nuova norma, il modo in cui l’umanità si è evoluta, ciò che ormai siamo?
Abbiamo organizzato, negli ultimi giorni, le lavagne dei buoni e dei cattivi in modo assai curioso. I cattivi sono quelli che vanno a mangiar la pizza da Briatore e fanno «ué ué ué» quando il pizzaiolo la fa girare, invece di contrirsi e postare bandierine azzurre e gialle. I buoni sono quelli che vanno a incontrare gli amici al sole, avvolti in bandiere azzurre e gialle, e rilasciano dichiarazioni su quanto soffrono.
Solo che questa descrizione non coglie la colpa né il merito. Solo che questa descrizione manca il punto della questione.
La colpa di Matteo Salvini e di Silvio Berlusconi non è di mangiare brioche mentre il popolo soffre la guerra, così come il merito del ceto medio riflessivo non è di dirci che la notte non dorme per il peso emotivo del conflitto. La colpa di là e il merito di qua risiedono in ciò che hanno in comune i due gesti: essere compiuti davanti alle telecamere dei telefoni.
Più che con la globalizzazione, più che con la fine della guerra fredda, più che coi social, più che con la smaterializzazione dei consumi culturali; più di tutto, il mondo è cambiato quando, delle duecento cose impresentabili che facevamo ogni giorno, centonovanta hanno iniziato a essere in rischiosa vicinanza della telecamera d’un altrui telefono (nei casi più gravi: del nostro).
Non sapevamo quanto fossero beate le nostre vite finché a nessuno importava che ci grattassimo, che mangiassimo la pizza, che accogliessimo un orfano ucraino, che fossimo contro la guerra, che non mettessimo il parmigiano sulle vongole. Non sai quel che hai finché non lo perdi, e noi abbiamo perso la possibilità d’essere invisibili.
La vera oligarchia, il vero lusso, è che la tua pizza non finisca sui social e sui siti. Ma per potertela permettere, quell’oligarchia lì, devi essere almeno Beyoncé: devi avere fantastiliardi da investire in guardie del corpo e assistenti che sequestrino i cellulari dei presenti, quando vuoi fare il karaoke col pizzaiolo e fuori c’è la guerra. E distribuirli e incitare a usarli, invece, i telefoni, quando vuoi dirti contrita dalla guerra e puntualmente dolente.
Poiché nessuno è Beyoncé – quasi neanche Beyoncé – a noialtri mortali resta la consolazione che ci sarà sempre un cretino che la fa più grossa di noi, un’inadeguatezza salviniana sulla quale dirottare la potenziale pericolosissima attenzione per l’inadeguatezza nostra (che magari abbiamo rilanciato la raccolta fondi sbagliata, o tardato a postare una bandierina e un cuoricino infranto nel nostro profilo social).
È anche molto interessante la scuola critica secondo la quale è grave che, all’uscita dalla pizzeria, e a chi chiedeva «avete parlato dell’Ucraina?», Salvini abbia risposto di sì: mentiva, l’abbiamo visto ridere e applaudire per due minuti e quindi di certo non ha fatto altro per ore. Interessante non perché io pensi che Salvini invece non mentisse, e sia invero contrito quanto il ceto medio riflessivo che, come passatempo del sabato pomeriggio, accende candele e manifesta avvolto in bandiere fotogeniche: esattamente come voi, a stento so cosa provo io, figuriamoci se conosco le preoccupazioni altrui.
Interessante perché mi sembra un’ovvietà così ovvia da non servire uno studioso di psicologia per decodificarla che chi vive di consenso popolare sarà più preoccupato delle conseguenze pratiche d’una guerra per il suo elettorato di quanto lo sia chi vive d’altro.
Ma, soprattutto, interessante la stranezza d’un tempo in cui il problema non è che un giornalista vada fuori da una pizzeria a chiedere «avete parlato dell’Ucraina?» (versione politica estera del «cosa prova?» che i giornalisti di cronaca nera domandano ai parenti del morto); il problema è che un senatore risponda con una frase di circostanza. Cosa doveva dire per non scontentarci, «ma sa quanto me ne fotte a me»? Ne avremmo approvato il sestessismo e l’autenticità?
Il guaio è che, come nei campi di calcetto della nostra infanzia, le squadre erano fatte da prima. Salvini non va bene neanche quando va a depositare i fiori per gli ucraini, mica solo quando applaude il pizzaiolo. Mentre noialtri, la nostra dolenza è certamente vera e sentita e vibrante e empatica, e la nostra eventuale pizzeria sarebbe un tentativo di distrarci dai dolori del mondo che tanto ci pesano. Noialtri che mai mai mai diremmo che le ucraine in Italia sono perlopiù badanti, come quella stronza renudista della Annunziata, le reazioni isteriche alla cui frase (detta mentre non era inquadrata, e pure veritiera) hanno fatto sembrare l’attentato di Sarajevo una spaghettata tra amici.
L’incipit dell’editoriale scritto sul New York Times di ieri da Maureen Dowd fa così: «Quel che mi ha sorpreso di più della Storia della quale sono stata coeva è quanto spesso siamo stati trascinati in percorsi dementi e distruttivi da leader che hanno dato la precedenza ai loro personali psicodrammi rispetto al benessere pubblico». Non si può darle torto.
Tuttavia nel frattempo la National Public Radio, l’istituzione culturale più di sinistra degli Stati Uniti d’America, pubblicava consigli su come affrontare le notizie stressanti sulla guerra: prendetevi cura di voi, cucinate una torta, scrivete una lettera a un amico. E sempre, sempre, ricordatevi che al centro ci siete voi, le vostre emozioni, le vostre percezioni, le vostre indignazioni e dolenze. Il vostro personale psicodramma, cifra espressiva unica sulla quale poi per forza ai politici tocca sintonizzarsi.