Cosa fai quando il tuo prosciutto – disco, libro, sfilata, programma comico – sulla cui stagionatura e distribuzione sono stati investiti soldi, la data della cui uscita è stata pianificata da mesi, cosa fai quando sotto al culo del tuo prosciutto e della di esso messa in vendita scoppia la guerra?
Si fa presto a dire «la gente muore e tu pensi alle stronzate»: la gente è già morta, se non pensa alle stronzate. Ma il ricatto di «adesso che vediamo le immagini, non si può far finta di niente» funziona talmente da sempre che quasi trent’anni fa all’adolescente Ambra Angiolini toccava fare, da ragazzina di scena in Non è la Rai, il suo bravo discorsetto in cui diceva che loro sapevano che c’era la guerra, non è che non se ne occupassero perché erano sceme, non era loro compito parlarne.
Figuriamoci un secolo dopo, quando i balletti in mutande neanche hanno la regia di Boncompagni, ma stanno su TikTok; figuriamoci un secolo dopo, quando a ballare in mutande un momento e ricordarci che c’è la guerra il momento dopo sono le adulte; figuriamoci un secolo dopo, quando dobbiamo tutti esprimerci su tutto, e tutto il tempo, e quel canale preposto a esprimerci è una rivendita di prosciutti, e quindi, cosa gli diciamo a chi ci dice tu parli di stronzate e la gente muore, e lo dice col piglio con cui i genitori ci rimproveravano di non mangiare le verdure mentre i bambini morivano di fame in Africa?
L’Africa era talmente il grande ricatto della nostra infanzia che Yasmina Reza, donna del Novecento, quando in Le dieu du carnage deve tratteggiare la dolente preinstagram che ci tiene a ricordarci che lei è più dolente di noi, le fa dire «Ne m’apprenez pas l’Afrique, je sais tout sur leur souffrance». Non insegnate l’Africa alle dolenti parigine, non insegnate l’Ucraina alle dolenti sedute bordo sfilata a Milano: sanno tutto della sofferenza a ogni geolocalizzazione.
Vi farà piacere sapere che una soluzione non c’è. Una soluzione, quando ormai abbiamo stabilmente deciso di commerciarci l’anima, non può esistere: a volte la tragedia irrompe, eppure lo spettacolo va avanti. È meglio se metti il quadrato nero e non posti per un giorno in segno di lutto? Ma le guerre mica finiscono in un giorno (neanche il razzismo o le altre brutture per cui si era scelta la sosta). È peggio se ti trasformi in aspirante divulgatore culturale dopo aver cercato l’Ucraina su Wikipedia, o se vai avanti coi tuoi prosciutti? È meglio, è peggio, se alterni, se scansi, se cosa?
Cosa devi fare, perché la tua reputazione non soffra, e con essa non soffra la vendita dei tuoi prosciutti? Perché quella trovata lì, quel telefono che hai in tasca, quello è una vetrina. Ti serve a vendere della roba, e per vendere della roba non puoi sembrare fuori dal mondo ma non devi neanche sembrare uno che s’approfitta della tragedia. Non puoi sembrare uno cui importa solo del fatturato ma neanche passare da essere Bobo Vieri a essere Lucio Caracciolo. Possibile non ci siano linee-guida, per questi poveri commercianti del sé?
Cosa devi fare? Piangere in primo piano dopo aver messo bene a fuoco la telecamera del telefono, come Fiammetta Cicogna? Alternare una storia di patatine sponsorizzate e un video straziante di padre ucraino, una di unità intensiva in zona di guerra e tre di accattevi-i-miei-ombretti, come Chiara Ferragni? Pubblicare uno schermo nero con disegnino di cuore spezzato? Pubblicare gli inviti alla sfilata dicendo che speri distragga dalla tragedia?
Fingere, come il marito della Ferragni, che non sia uscito da due giorni Lol, la produzione di Prime che state aspettando di lanciare da mesi, e che già aveva avuto il problema d’una concorrente che aveva detto delle puttanate sui vaccini (e chi glielo doveva dire a Putin che causava persino più guai che una carneade dello spettacolo italiano, a quella povera multinazionale)? Smettere di fare duemila storie Instagram al giorno sul tuo nuovo programma così nessuno ti rimprovera la frivolezza, ma non farne neanche sull’Ucraina, perché sennò la multinazionale ti rimprovera l’accostamento che evoca malumori nel pubblico potenziale?
Fottersene dello spirito del tempo come Kim Kardashian che s’autoscatta con Miuccia Prada invece di fotografarsi con cartelli dolenti contro la guerra? O fottersene il primo giorno e poi venire sconsigliate il secondo, come Elisabetta Franchi, e quindi passare da video di Sabrina Salerno che arriva in atelier come nulla fosse, a foto con cartelli che dicono che sì, la sfilata must go on, ma siamo per la pace?
O fingere, come Cesare Cremonini, che vada tutto bene e la notizia più importante del momento sia l’uscita del tuo nuovo disco? (E perché non dovrebbe esserlo? Ci lavori da mesi, credo più a un Cremonini che bada al suo prosciutto che a chi sostiene di non dormire pensando ai profughi: ma conta qualcosa, a chi credo io? E tuttavia: è possibile non porsi il problema di come si risulti più credibili, in questo infernale sistema di continue valutazioni e riscontri che abbiamo creato?).
L’attentato al teatro Bataclan, a Parigi, è di meno di sette anni fa. Ricordo i messaggi di quella sera, mentre stavamo attaccati alle dirette televisive cercando di capire che inferno stesse succedendo, e sui social ancora ingenui e goffi e maldestri c’erano i tapini che ci ricordavano la presentazione del loro libro, il loro prosciutto in uscita, quel che importava a loro, riguardava loro, metteva al centro loro. Ricordo l’insofferenza dei «ma ti sembra il momento» che ci si scambiavano in privato.
Era meno di sette anni fa, ed era tutto diverso: non avevamo un prosciutto da vendere ogni momento, e una tragedia di fronte alla quale palesare dolenza ogni momento, e una continua tensione a perfezionare l’incastro tra l’anima e il commercio.
Era meno di sette anni fa, ed era tutto uguale: non avevamo una soluzione. A parte il cuoricino spezzato tra le emoticon d’uso frequente: quella ce l’abbiamo sempre pronta, va bene per i figli in dad, per la guerra, per il prosciutto andato male d’un dirimpettaio di bottega, e per le sofferenze dell’Africa.