Un tempo la si diceva letteratura amena, ed era, è un bel dire, preciso e perspicuo: chiarisce che si tratta pur sempre di letteratura: e suggerisce come nasca dal diletto dello scrittore, da un piacere semplice. Semplice, in quanto lo scrittore qui gioca con le regole consolidate di un filone romanzesco noto al lettore. Poi si è iniziato a dirla narrativa di genere: non più letteratura – infatti, di rado lo è – con in aggiunta una locuzione che in questi anni di pesanteur induce un subitaneo reflusso di noia. D’altronde, il lessico dice sempre lo stato di salute di una lingua.
La serie di romanzi con in scena il commissario poi vicequestore Norberto Melis e scritti da Hans Tuzzi fan parte della letteratura amena, a pieno titolo e con merito: hanno conquistato i lettori proprio per la amena serietà del protagonista, un colto borghese e un funzionario pertinace, per la padronanza del congegno narrativo e l’ironia implicita che allieta il fraseggiare – e Milano, in carne e ossa vien da dire, tanto è tattile la sostanza milanese dei romanzi, con malinconia asburgica a latere. Insomma, una di quelle miscele nate bene che diventano un piacere a cui tornare: così i romanzi milanesi di Tuzzi sono diventati un appuntamento.
(Hans Tuzzi non si diletta solo di letteratura amena: ha pubblicato un romanzo di grande respiro e ambizione, Nessuno rivede Itaca, con in scena un personaggio memorabile: Massimo – più un cognome breve e tronco, veneziano: un cercatore d’assoluto in una Europa in dissoluzione. Non giova alla qualità il deuteragonista, Tommaso, non all’altezza; ma il romanzo rimane da leggere).
Norberto Melis è tra le figure letterarie di questi ultimi vent’anni che rimarranno: discosto e singolare, senza pretese di assoluto, legato a Milano e libero di partire. Per chi non lo ha già incontrato eccolo all’inizio del nuovo libro, sulla soglia: “Aveva cinquant’anni, ben portati come spesso capita alle persone di statura inferiore alla media: nel caso, due centimetri sopra il metro e settanta. Sempre quella barba corta e curata, ora striata di grigio. Sempre quegli occhi stretti da gente di mare. Sempre una misurata eleganza, pantaloni di velluto polo e mocassini”. Una notazione en passant; una precisazione ironica; la cadenza della anafora a dire la fedeltà. Melis è un uomo fedele a se stesso e alle sue scelte. Di se stesso dice che vorrebbe saper essere come Pannunzio raccontava di sé: “progressista in politica, conservatore in economia e reazionario nel costume, a cominciare da come ci si veste e si sta a tavola”. Più un fantasma che una rarità, ormai.
Ora Tuzzi pubblica quello che annuncia essere l’ultimo numero della serie, arrivata a sedici titoli: Ma cos’è questo nulla?, sempre per Bollati Boringhieri. Niente dura per sempre; e bisogna saper chiudere. Tuzzi lo fa alzando il tono del diletto: devo chiudere, che sia a modo mio: niente sentimentalismi, facciamo carnevale in giallo. Si dice carnevale e vengono alla mente le maschere: Venezia, certo, ma il Tiepolo, col suo corteggio di eleganze in tinta: così la terraferma, la Marca orientale e l’oggi. Dove trovare un catalogo di maschere come quello delle terre tra Veneto e Friuli? Tutta una tradizione, letteraria e cinematografica, viene a soccorso e chiama alla emulazione. Difficile non accettare la sfida: troppo, il diletto.
Tuzzi s’inventa una cittadina immaginaria che scorgiamo sul confine, veneta con qualche ascendenza friulana: Brassanigo, il suo nome. Tutto si svolge in dodici giorni del novembre dell’anno 1994 – e c’è un prologo romano, anzi siculo-romano, all’ippodromo delle Capannelle, nel maggio dello stesso anno. (Quale sia il senso del prologo lo intenderà il lettore, alla fine). Le maschere sono quelle della provincia italiana per eccellenza, il Veneto; la vicenda quella dell’assassinio di una baby sitter avvenuto nel febbraio del 1986 e rimasto impunito; la spinta ad accettare l’incarico di indagare, sotto mentite spoglie e per segreto (alla lettera), viene a Melis – in ritiro dal mondo – non tanto dal legame con il visitatore, quanto dall’ombra che tormenta. Più l’ingrediente d’indole e ben noto: l’istinto della caccia.
Un passo indietro. La serie di romanzi si svolge lungo un arco di tempo ben preciso e preordinato: dal febbraio del 1978, prima del rapimento Moro, al novembre del 1994, anno della caduta del primo governo Berlusconi. Hans Tuzzi li dice “gli anni in cui si svilisce la grammatica di una civiltà”: non si può non concordare, a patto di aggiungere che poi si è andati oltre, fino ad arrivare alla beata inconsistenza d’oggi. (Non che la narrativa dell’autore nasca da quegli equivoci e astratti furori che fan dire di “spaccato di un’epoca”, di “impeccabile restituzione di un ambiente” e altre amenità da chierico in fregola: Tuzzi sa bene che la letteratura non divide il talamo con le soi disant scienze umane – troppo racchie, malvestite e petulanti). Vale solo il fatto che l’eterna provincia italiana è nata per il grottesco.
Avere la facoltà di inventare di sana pianta una cittadina è manna per un letterato amatore delle arti: il diletto dell’autore è palpabile, quando si visitano le descrizioni dei luoghi, dettagliate come in un visionario pittore neerlandese, affabile e arguto. “Piazza delle Erbe metteva allegria solo a guardarla. I colori – dei tendoni, dei fiori, dei coni di spezie in polvere, degli ortaggi più strani – e le voci, cantilenanti come un gospel salso di laguna, si mescolavano alle superbe architetture che rinserravano quel modesto spazio rettangolare facendone una vera quinta teatrale (…) La Locanda era uno degli edifici sul lato lungo a occidente: il lato corto a nord era chiuso da una chiesa bizzarra che gli ricordò la veneziana santa Maria dei Miracoli, quello a sud, confinante con l’attigua e più vasta piazza del Popolo, da una copia del padovano teatro dell’Odeo: Rinascimento e Barocco anche per le case private che correvano sui lati lunghi dove si aprivano vetrine eleganti”. Un tour de force nel segno della verosimiglianza e del romanzesco.
Pure il luogo della narrativa dell’autore sono i personaggi: Tuzzi ha il suo talento più spiccato nella caratterizzazione – e volendo chiudere a carnevale ne fa man bassa. È un vero e proprio bestiario del nord-est anni Novanta. Non vale anticipare i dati figurativi e fisionomici, basti il nome e cognome: la vittima Mariastella Biason, ventenne di modesti natali; l’ex stallone poi maestro di una confraternita esoterica, Ortilia, l’abile Beniamino Bratti; l’ex attrazione del posto, un tempo dedita ai rugbisti locali e oggi in disarmo, Marina Pinotti; il marito della ex attrazione e poco reattivo alla femmina, l’architetto Plinio Coghetti; la attrazione foresta, Assunta Cozzolino in arte Audrey Casey, già star del filone erotico-horror all’italiana, andata a nozze con Giandomenico Biesuz, titolare della omonima e nota industria di elettrodomestici; e tanti altri già visti e rivisti, qui reinventati a furor di diletto e (quasi) in souplesse. Tuzzi fa buon uso del luogo comune, figura retorica fondamentale del grottesco: sistema e aggiusta, tira e molla, scuce e stira. Un barnum.
Pure ci sono un’ombra e un vuoto, legati, in questo ultimo atto: non dirò l’ombra ma il vuoto, così evidente al lettore della serie: manca lei, Fiorenza, giovin signora e redattore, poi direttore editoriale di una piccola casa editrice (finita nel portafogli di un gruppo editoriale) che è passione e patimento. La compagna di una vita, morta e indimenticata: la presenza luminosa che si sa amore anche senza dirlo, notificarlo Fiorenza è figura d’equilibrio dei romanzi della serie: una sorta di fattore di forza, in regolata mescolanza e felice. Tuzzi sa del vuoto e pure non tenta di riempirlo – sono le mosse da cui si riconosce uno scrittore. Così s’inventa una elegante fenice inglese e “italianata”, figura un po’ seppiata e stravagante chiamata Miss Parrish: una donna che non occupi altro spazio che quello del garbo e delle buone maniere. Non a caso sarà lei ad accompagnare Melis a un treno.
Rimane nella mente questo Melis di dignitosa doloranza: un uomo che porta con sé la perdita e aspetta solo un treno, “un treno per Qualdove, avrebbe detto Fiorenza”. Intanto fa il suo lavoro: non per uno stipendio, non per un ideale civile: per qualcosa di ben più importante, che non si dà se non alla nascita e si affina poi discorrendo. L’ambizione alla giustizia e il gusto innato per la civilisation, in tutte le accezioni: così europeo e oggi mortificato. La battaglia che val la pena.
Hans Tuzzi chiude alla meglio una serie fortunata: cosa di meglio che far carnevale e indicare l’ombra per dire l’eterna commedia di una Italia che non riesce a essere civile, se non nei momenti e nelle figure dell’emergenza? Norberto Melis è figura dei pertinaci pochi che han provato a contrastare il dilagare dell’inciviltà (e altro) di quegli anni bui, tra la fine dei Settanta e la metà dei Novanta. Poi sarebbe arrivata l’Età dell’Inconsistenza: chi sa se è possibile far letteratura amena di questo tempo. Ecco, se c’è qualcuno che può farlo, questi è Hans Tuzzi.