Giorgio Manganelli, ovvero la letteratura allo stato fluido, lavico, folle: materia di eruzione che d’emblée si fa minerale lapideo di chioschi e grottesche, padiglioni e palazzi d’inferno. (Ogni volta che leggo Manganelli mi viene alla mente Catania: la via dei Crociferi, la fontana dell’Elefante, la fontana dell’Arenano e la Piscarìa – e c’è un Palazzo Manganelli, notevole). È incandescenza che si fa architettura. Le recensioni librarie sorgono in guisa di chioschi e completi.
Oggi si può dirlo: Giorgio Manganelli ha portato lustro alla recensione letteraria – e col piglio del predestinato. Saggista notevole e narratore recalcitrante al romanzo, è maestro della prosa breve italiana: in tutte le variazioni: dal corsivo alla novella; ed è nella recensione che il talento del lettore e lo scrittore fan matrimonio d’interesse. I volumi Concupiscenza libraria (2020) e Altre concupiscenze, fresco di stampa, entrambi da Adelphi, sono lì a dimostrare il primato e al meglio.
(Un ringraziamento va a Salvatore Silvano Nigro, impeccabile curatore dei due libri: saggista notevole del suo, bordeggia tra Sciascia e Manganelli dopo aver navigato nel vasto mare dei Promessi sposi manzoniani: un bel leggere).
Lo dico subito: Manganelli intende la recensione nell’unico modo possibile al lettore e senza infingimenti: è opera letteraria. Non palazzo e neppur padiglione: chiosco, luogo d’incontro. Una narrazione saggistica dove il lettore e lo scrittore s’incontrano – e dove se i ruoli sono scambievoli nasce il miracolo. Ecco Manganelli su Borges: «Non recensirò un nuovo libro di poesie di Borges, splendidamente tradotto dalla pazienza intelligente di Domenico Porzio. Non vorrete che vi dica che “è bello”, “è bellissimo”, “è inquietante”. Se leggo Borges, non mi interessa giudicarlo, né, fondamentalmente, capirlo; mi interessa sapere che cosa significa il fatto che io lo legga».
Quel che conta è quel che il lettore-scrittore cerca: il luogo del libro e dello scrittore che legge: un luogo che è unico, se è scrittore che val la pena leggere. Ora, l’unico modo per dire quel luogo è raccontarlo, dire il suo essere in forma di parole e frasi: è l’arte della ècfrasi, antica quanto il mondo. In un tempo felice e lieto, prima delle malattie dette scienze umane, ècfrasi era il solo e unico nome dell’arte della lettura: che fosse un libro, una pittura, una scultura, una architettura. (In quel tempo l’Italia e la Francia erano il paradiso dell’ècfrasi e così degli scrittori: valga un nome che li accoglie tutti: Roberto Longhi). Manganelli è maestro d’ècfrasi – e a modo tutto suo: un comédien novecentesco e anacronista.
Manganelli e Borges, ancora e a iperbole: «Catturo un verso isolato – tra una serie di versi isolati e concatenati – e lo pongo davanti a me: “echi, risacca, sabbia, lichene, sogni”. / L’eco presuppone la voce, ma non è voce, come la risacca non è tutto il mare, la sabbia è memoria di montagne, il lichene, più che vegetale è allusione – solitudine, freddo, la quieta infelicità polare – e, infine, i sogni queste “cose che non esistono”. Chi ama non il profilo, ma la misteriosa e inesauribile storia della sua ombra [il corsivo è mio], tenterà questi versi». Voilà il luogo dello scrittore Borges e il suo libro: e per via di ècfrasi, di narrazione: il luogo che cerca Manganelli per farne scena della sua interpretazione letteraria.
Manganelli e Savinio, a sottovoce: «Perché mai questa casa parigina è “ispirata”? Perché è una casa affatto comune, umana, e dunque tendente al mostruoso, e invasa da oscuri, inquieti spiriti; le figure saviniane recano sempre appresso un doppio allegorico, mostruoso, fantasmatico. Un personaggio narrante afferma alla prima riga: “Venni ad abitare nella casa”. È un inizio solenne, di quella gravità che in Savinio sembra una parodia del liturgico [idem]. E continua: “Le azioni affrontate con animo giocondo, sogliono compiersi felicemente”. Ecco: come sempre, Savinio divaga; più esattamente, chiosa. La sua prosa sapida, modulata, direi condita è intimamente instabile, vagabonda tra enunciazioni, didascalie, tracce filosofiche, invenzioni oracolari [idem]».
Ecco il luogo di Savinio e il suo libro; pure manca di quel quid che Manganelli sente sotto i polpastrelli. «Nella casa “ispirata” tutto ha connotati inquietanti, tutto, uomini e cose, travalica in uno spazio nel quale il sacro e l’infimo si giustappongono ostinatamente. Tutto ciò che è umano è perciò stesso intinto di deformità. Anche gli dèi sono tutori e complici del deforme (…) Insieme, una strana risata, un enigmatico riso arcaico turba queste pagine affascinanti, questo squisito pretesto per coinvolgere uomini e dèi nella intrigata, magata chiacchiera di Savinio, sfiduciato oracolo [idem]. È quel che mancava a “oracolo”: un aggettivo, un semplice aggettivo: “sfiduciato”, e come ultima parola, in chiusura: ora è clausola, è Savinio in bellezza» – ed è Manganelli in toto, a partir dalla musica. Tutto senza far cenno alla sintassi e il suo dar di gomito.
Ora è chiaro che l’arte della ècfrasi vive in splendore della padronanza della lingua, la sua intelligenza e la sottigliezza: non si tratta di accertare un fatto ma di saggiare e così narrare come il fatto che è il libro viene letto, interpretato: il fatto (il libro) è solo invenzione del vero, e delle invenzioni non si può accertare un bel nulla. Solo può il lettore-scrittore, armato delle figure della retorica, darne conto in analogia e nuove invenzioni: e Manganelli abita la retorica come un possidente le sue terre. Solo l’arte retorica riscatta la cronaca e la volge in letteratura.
«Io sono un recensore» dichiara M. in un articolo del 1978: «È una dichiarazione impegnativa, e sorniona», chiosa Silvano Nigro. Ne ha ben donde, conosce l’autore e sa il suo dare in bizze al solo sentore di serietà. (Tenete a mente l’ultima parola, serietà, e l’altra del mio incipit, incandescenza). Futilità è il mio motto! direbbe il magician letterario. A conferma, nell’anno 1986, riporta Nigro, scriveva nel risvolto proposto come quarta di copertina di due volumi di recensioni (Laboriose inezie, pubblicato; Oggidiani, rimasto inedito): «Non v’è nulla di più futile della recensione; gesto miserabile, irresponsabile, ritaglio di chiacchiera, gomitolo di inutili aggettivi, di frivoli avverbi, di risibili sentenze». Appagato, dopo averla detta «fatuità insolente» suggerisce una sua possibile accoglienza nella «disordinata, chiassosa piazza dei mestieri letterari, tra il poema epico e l’epigramma, il sonetto caudato e il capitolo in rima».
Ma non è finita: una lunga, elaborata invettiva con tanto di appellativo finale: «parassita». Insomma, si sarà capito: Manganelli lavora per antifrasi in velo d’ironia – “futilità” e “fatuità” son per lui termini encomiastici, e sigilli.
Un opera letteraria, quindi; un genere, addirittura. Manganelli così l’intende e così si capirà la stima per uno dei nostri eroi: Edmund Wilson, lettore-scrittore insuperabile tra quelli di lingua atlantica. La prima tavola della legge è il presupposto necessario e insufficiente: «La recensione è per Wilson, prima che uno spazio giornalistico, uno schema, un genere letterario governato da leggi dure e fredde»; la seconda tavola è la sostanza e necessaria: «Wilson non solo è critico anche nella recensione, ma, oltre che critico, o insieme, è uno straordinario scrittore»; e a far da esempio cita da quella Introduzione a Persio che è un assoluto oltre ogni genere (la trovate nel libro Il cronista letterario, che ebbe le cure di Grazia Cherchi).
Una proposizione, ed ecco W.: «Wilson maneggia con singolare grazia, ma senza mollezza, queste sommesse figure dell’eloquenza, la cui tenuità vela la tensione». Diversa di tono è la grazia di Manganelli, scontrosa fino al brusco; non dissimile la sensibilità tattile per i manufatti letterari, e condiviso il fascino per i piaceri difficili della eloquenza. Infine, il marchio che accomuna tutti i lettori-scrittori: lo sfacciato, contagioso diletto della letteratura. More solito: il dilettante, supremo comédien.
Manganelli è recensore fulmineo alla clausola e alla sentenza definitiva, se il libro e lo scrittore non gli garbano. Memorabile, su Cristo si è fermato a Eboli e Carlo Levi: «Lo stato d’animo di Levi è quello con cui si fa cattiva letteratura. Cristo si è fermato a Eboli non fa eccezione. Ma, per essere cattiva letteratura, è eccezionalmente competente». Antonio Campobasso, autore di un libro che l’incauto prefatore dice «cantata meridionale-africana», e già ce ne sarebbe d’avanzo: «È nato scrittore; ora deve diventarlo».
Per Sebastiano Vassalli, sovrano indiscusso dei sopravvalutati, una bella polpetta avvelenata: «È uno sbracato che indossa solo mantelli di lusso, con sangue banditesco». Vien da pensare cosa scriverebbe oggi dei cavallanti della carovana detta “pura narratività”, che di quello stato d’animo fan frasi a cartapesta. Temo non toccherebbe i libri di quelli neppure con una pertica.
L’alimento della prosa di Manganelli è l’incandescenza che muove il suo discorrere e detta la sintassi; il genio della retorica è dietro il suo far architettura di ogni testo: i chioschi-recensioni, spazi per incontri brevi con il lettore, son lì a dire la perspicuità e lo splendore. Cos’è, questa incandescenza in perpetua metamorfosi, esorbitante? Una serietà terribile allo scrittore. Manganelli ha il sacro terrore della serietà, e così come un Gaudì della letteratura esibisce gli emblemi della futilità e la fatuità: l’estro. L’estro come rimedio alla serietà che non lo lascia, e tormenta.