Il problema maggiore dell’emergenza è la logica stessa dell’emergenza. Nei due anni trascorsi abbiamo accettato tutta una serie di limitazioni della nostra libertà personale, in ragione dell’ingresso di Sars-Cov-2 nelle nostre vite.
Ciascuna delle misure adottate è stata giustificata, o appariva giustificabile, all’interno di una cornice più ampia. Quella determinata dall’assunto che la nostra vita di ieri, con la medesima libertà di movimento, e le nostre routine fossero incompatibili con il quadro epidemiologico (per usare un’espressione entrata rapidamente nel vocabolario di tutti).
Nell’immediato, il ricorso al principio di precauzione e la compressione dei diritti individuali per rallentare il ritmo dei contagi (appiattire la curva, altra espressione di moda) poteva essere una mossa ragionevole: eravamo di fronte a un fatto che, per quanto vagamente previsto da decine di piani pandemici, era in larga misura nuovo per molti Paesi del mondo e l’attuale generazione delle loro classi dirigenti.
A un certo punto, però, avremmo dovuto accorgerci che la società sostenuta dalla nostra libertà e dalle nostre routine era proprio quella che ci ha consentito di mettere a punto a tempo di record strumenti diagnostici, poi vaccini, ora trattamenti contro la malattia Covid-19. Non vogliamo proporre una visione semplificata e eccessivamente lineare dei nessi causali che stanno dietro a fenomeni così complessi, ma questi straordinari risultati sono l’esito dell’interazione fra ricerca scientifica e libero mercato: l’uno e l’altro due pilastri della società aperta.
Il fatto che i vaccini funzionino, vale a dire che proteggano efficacemente dalle forme gravi di malattia con un’efficacia variabile a seconda delle varianti e delle condizioni immunitarie individuali che sono comunque nel campo percentuale di efficacia di diversi vaccini contro altre malattie, dovrebbe restituirci fiducia nei fondamenti della società aperta. Che non significa pensare, sostituendo la speranza al senso critico, che l’endemizzazione (nuova espressione di moda) implichi di per sé che Covid-19 sarà d’ora innanzi assimilabile al raffreddore. Lo speriamo tutti, ma non lo possiamo sapere: le evoluzioni (le varianti) di Sars-Cov-2 sono sin qui state tendenzialmente più trasmissibili ma non più letali, tuttavia questo non significa che le cose andranno necessariamente nello stesso modo anche in futuro.
Ritrovare fiducia nei fondamenti della società aperta significa capire che se le società basate sulla libertà individuale producono strumenti efficaci contro i patogeni, non è saggio metterle a rischio. Detto altrimenti, non possiamo ignorare che il carico di patogeni si è storicamente ridotto nelle società umane via via che queste guadagnavano in libertà individuale, stato di diritto, logiche di sviluppo sociale ed economico competitive. Anche le società, come i corpi umani, sono organismi complessi e oltremodo fragili, che comprendiamo solo in parte.
I rapporti fra istituzioni, norme, cultura diffusa che hanno generato società assai più libere rispetto a quelle del passato è di per sé un ecosistema complesso, col quale è rischioso interferire sulla base di vaghe intuizioni, anche con la migliore delle intenzioni: come quella di debellare un’epidemia.
La limitazione della libertà di movimento ha effetti, per intenderci, anche sulla libertà di ricerca e sullo stato della ricerca scientifica: lo scorso novembre Nature pubblicava uno studio su come la pandemia ha influenzato negativamente la produttività scientifica in Europa e Stati Uniti, con meno progetti finanziati, donne, genitori di bambini e persone di colore che risultano più danneggiati e nel Regno Unito un aumento di problemi mentali per gli staff universitari. La riduzione delle libertà individuali con introduzione di strumenti nuovi, come il Green Pass, è un potente precedente che cambia la percezione del diritto e, quindi, le aspettative su che cosa sia possibile fare o meno della propria vita, della propria intelligenza, dei propri investimenti.
Ci sembra che, in Europa e nel mondo, Paesi che pure avevano adottato restrizioni anche molto rigide le stiano allentando in modo importante. L’obiettivo è, dichiaratamente, quello di tornare alla normalità. C’è, dunque, un punto di arrivo designato, che è il mondo di prima.
Verosimilmente ai decisori e agli esperti che li sorreggono, in quei Paesi, non sfugge il fatto che la pandemia non è certo finita e che bisognerà combattere, a lungo, con Covid-19: cioè curare le persone che sono affette dalla malattia. Ma altrettanto verosimilmente il loro ragionamento è che, mantenendo tramite la vaccinazione un elevato livello di immunità in una popolazione, sia possibile poi affidarsi alla responsabilità individuale: che significa alla percezione del rischio che ciascuna persona ha, rispetto alla possibilità di essere infetto da Sars-Cov-2 e di sviluppare la malattia in forma grave. I risultati della ricerca e dell’innovazione dei mesi scorsi ci consentono di pensare che affidarsi alla responsabilità del singolo non sia incompatibile con il benessere di tutta una comunità.
Questo non significa che non ci saranno contagi e che non ci saranno persone che si ammalano gravemente: ma significa che è verosimile attendersi che ciò avvenga in proporzioni e tempi che non portano al collasso i sistemi di sanità pubblica (che, magari, alcuni Stati hanno appropriatamente potenziato).
La via sembra essere: ritorno alla normalità, fiducia nella scienza, abolizione delle misure non farmacologiche. Tranne che in Italia. Nel nostro Paese, l’ultima misura del governo, il Green Pass, che nella narrazione comunicativa è stato a volte ambiguamente raccontato sia come misura sanitaria sia come dispositivo per obbligare i cittadini a vaccinarsi, al contrario espande sempre di più i suoi confini. Dopo la terza dose, e in attesa di dati sulla necessità o meno di una quarta, è stato esteso “indefinitamente”. Avesse avuto qualche effetto nel produrre un aumento significativo delle vaccinazioni resterebbe una norma odiosa e illiberale ma si potrebbe rivendicare l’efficacia.
Invece non si vuole capire che le persone abituate a vivere in società aperte complesse detestano sentirsi trattate come bambini incapaci di pensare con la loro testa. Allo stesso tempo, la non vaccinazione determina uno status di discriminazione che è scarsamente compatibile col modo nel quale le società aperte si sono evolute negli ultimi anni.
Con la pandemia, siamo passati in men che non si dica da un contesto culturale fortemente avverso alle discriminazioni anche private (non posso aprire una pasticceria che vende dolci solo a donne bionde sotto i 35 anni e rifiutarmi di servire qualsiasi altro tipo di cliente), a una nuova discriminazione dettata da ragioni sanitarie.
La didattica a distanza differenziata per bambini vaccinati o no è una scelta particolarmente indicativa, e grave. Come abbiamo già scritto, i timori circa la vaccinazione dei bambini sono immotivati: i bambini non sono bambole di porcellana il cui sistema immunitario ha bisogno di cautele diverse da quelle degli adulti.
Un’ampia quota di vaccinati, fra i bambini, aiuta a limitare il serbatoio di circolazione del virus – il virus per sua indole si lancia alla ricerca della popolazione più suscettibile, per cui non si fa il bene dei bambini a non vaccinarli – e consente, obiettivo non epidemiologico ma socialmente più importante forse di tutti, di assicurare la continuità didattica, riducendo chiusure delle scuole e momenti di didattica a distanza.
Dal punto di vista individuale, vaccinare i propri figli è particolarmente utile in caso essi vivano a stretto contatto con nonni o genitori anziani, che possono avere un decorso della malattia più grave. I casi di malattia grave fra i minori sono limitati, ma sappiamo che non sono zero: siamo tutti diversi e ci sono debolezze e problemi che possono dare luogo a un brutto Covid, con sequele di effetti a lunga scadenza, anche fra i più giovani.
Gli eventi drammatici non sono mancati. Detto questo, sono i genitori a essere responsabili dei loro figli e questi non possono essere sottoposti (in una società libera) a trattamenti che, a fronte del fatto che non c’è un rischio di vita immediato, i primi non abbiano prima approvato e riconosciuto come nel loro miglior interesse.
I rischi sanitari per i bambini e le classi sono, come abbiamo detto, modesti ancorché non zero. Ma quali sono i rischi psicologici legati a una evidente discriminazione di un bambino (i tuoi compagni vanno a scuola, tu no), conseguente a una scelta dei suoi genitori? Sono zero? Non immaginiamo davvero ripercussioni di sorta, in termini di rapporto con i coetanei, di socialità, di sicurezza in sé stessi, di fiducia nel mondo degli adulti? Come ci aspettiamo che gli insegnanti giustifichino scelte del genere? Pensiamo sia il loro mestiere indottrinare i bambini sulle scelte che i più grandi avrebbero dovuto fare per loro, e non hanno fatto?
Il tema è posto, per ironia della sorte, dai ministri di un partito, la Lega, che in passato ha più volte sostenuto, in modo più o meno diretto, che gli italiani di prima generazione non dovrebbero avere i medesimi diritti di chi invece ha in questo Paese radici profonde. Ma questo non significa che non sia un tema.
La popolazione vaccinata in Italia è, mentre scriviamo, l’85% con una sola dose, il 78% in modo completo e quasi il 60% con richiamo. Sono numeri importanti e incoraggianti, al punto che gli stessi esperti che ogni settimana chiedevano un lockdown ora dicono che con questi numeri si deve superare ogni misura di emergenza. Dovrebbe servire a ridurre il campo d’applicazione del Green Pass, non ad ampliarlo. La normalità che ci manca non era fatta di esibizione di documenti per prendere un cappuccino – e nemmeno del paradosso per cui un cittadino straniero, per andare al bar, dovrebbe mostrare il Green Pass straniero, il tampone italiano e temiamo anche il passaporto, per chiarire il suo status.
Si dirà che buona parte di queste norme sono inapplicabili e ci sono vaste aree del Paese dove è inimmaginabile qualsiasi momento di controllo della compliance di baristi, ristoratori, negozianti. Anche questo modo di ragionare mette in dubbio i pilastri della società aperta, da noi tradizionalmente così fragili. Le leggi non possono essere pensate e scritte in modo esagerato, nella convinzione che poi il campo d’applicazione sarà necessariamente più moderato. Non siamo giuristi, ma il colpirne uno per educarne cento non ci pare uno dei principi del nostro diritto.
Il nuovo tempo della pandemia in Italia si presenta come una normalità condizionata, nella quale vengono tenute vive delle misure non farmaceutiche indipendentemente da qualsiasi valutazione della loro utilità. L’efficacia del Green Pass come incentivo alla vaccinazione è stata, come già abbiamo scritto, dubbia a essere generosi. Gli italiani si sono vaccinati in massa in larga misura indipendentemente da questo incentivo negativo. Ma anche l’avessero fatto per il Green Pass, conta la percentuale della popolazione vaccinata, non il numero di QR scansionati tutti i giorni.
L’approccio del governo è stato paternalista e i messaggi improntati da un riduttivo altruismo (bisogna vaccinarsi per gli altri) o fideismo (bisogna credere nella scienza). Il fatto è che nelle società aperte la fiducia sociale matura in modo sano quando si mettono in gioco fatti e prove, cioè la capacità del sistema di reclutare con procedure trasparenti e competitive competenze e capacità decisionali che risolvono i problemi.
A parte il generale Figliuolo non si sono viste in azione competenze e capacità su altri fronti. Le decisioni sono state prese a scapito del fatto che le chiusure sociali e la moralizzazione delle scelte alimentano atteggiamenti pseudoscientifici, come per esempio sulle vaccinazioni. Così la diminuzione degli spazi di libertà si accompagna all’indebolimento della fiducia nella scienza e nelle istituzioni.