A metà gennaio, Microsoft ha annunciato l’acquisizione di Activision Blizzard, una delle più grandi case produttrici di videogiochi al mondo, per una cifra vicina ai 70 miliardi di dollari. È la più grande acquisizione dell’azienda in quasi 50 anni di storia nel settore tecnologico.
Un investimento che apre una finestra sul futuro: Microsoft vuole potenziare la propria offerta nel settore dei videogiochi, certo, ma vuole crescere soprattutto nel segmento legato alla realtà virtuale, al “metaverso”, che considera il futuro di Internet. O meglio: che molti degli addetti ai lavori considerano il futuro di internet.
Quando si parla di metaverso, si fa riferimento a una realtà virtuale nella quale le persone possono incontrarsi in forma di avatar, e da lì interagire come se fossero nella stessa stanza o nello stesso luogo.
«Nei videogiochi la realtà virtuale esiste già in una forma molto avanzata, in particolare negli “sparatutto”», dice Stefano Quintarelli, uno dei pionieri di Internet in Italia, ex deputato, imprenditore e informatico, nonché consigliere dell’Associazione Copernicani.
Dove va il metaverso
Il metaverso è diventato argomento di dibattito ormai tre decenni fa, quando Neal Stephenson pubblicò “Snow Crash”. Era il 1992. Oggi il metaverso è un mondo virtuale e possibile, raggiungibile attraverso determinate piattaforme in rete e visori per la “realtà virtuale”, al cui interno è possibile compiere ogni tipo di attività con il proprio avatar.
Il metaverso apre quindi a una miriade di possibilità. Non è come quando arriva sul mercato un nuovo social o un nuovo videogioco. È proprio un mondo parallelo al quale si può – o si potrà, quando sarà più sviluppato – accedere tramite occhiali, visori, caschi e tutti gli altri strumenti che l’industria tech vorrà sviluppare.
Per Quintarelli, però, lo sviluppo non andrà solo verso un’immersione visiva totale. Piuttosto, il metaverso sarà un mondo in cui realtà virtuale e realtà aumentata si intrecceranno. «Un ambiente totalmente virtuale serve a poco, sarà imprescindibile un certo grado di integrazione con il mondo reale, a meno che non si voglia restare immobili con il visore in testa», spiega. «Immaginiamo una riunione di lavoro: se hai solo un visore vedi chi hai di fronte ma non vedi le tue mani, quindi come prendi appunti? Il blocco note e la penna come li muovi? Come bevi il caffè? Mi aspetto che le principali applicazioni del futuro siano una via di mezzo tra il metaverso che ha in mente Zuckerberg e la realtà aumentata di Microsoft».
Le implicazioni sul mondo del lavoro sono una parte fondamentale delle prospettive del metaverso: può cambiare le abitudini e le consuetudini di tante persone e tante aziende, prima in un settore, poi in un altro, più tardi in quelli meno compatibili con questa tecnologia.
«Sicuramente i meeting di lavoro che si svolgono oggi su Teams e Zoom saranno molto più interattivi e l’esperienza dell’utente migliorerà esponenzialmente. Inoltre molte persone che possono trovarsi costrette a vivere a distanza per svariati motivi, potranno, invece che videochiamarsi, incontrarsi nel metaverso», dice Quintarelli.
Le condizioni per un metaverso accessibile
L’esempio delle riunioni fatto da Quintarelli lascia ben intendere i possibili sviluppi: un visore per la realtà virtuale, se connesso nel migliore dei modi, permette un’esperienza decisamente più immersiva di ogni videocall immaginabile.
Ci sarà bisogno, però, di creare le condizioni per rendere la realtà virtuale sostenibile, accessibile ai lavoratori. Per questo, dice Quintarelli, un passo fondamentale in questa direzione sarà garantire l’interoperabilità dei servizi. «Io non uso WhatsApp come servizio di messaggistica perché permette di dialogare solo con altre persone che hanno la stessa applicazione», spiega. «Immaginiamo di avere il visore prodotto da Zoom per una videoconferenza, se poi devo fare un’altra cosa non è che posso cambiare visore e mettere su quello prodotto dall’azienda di Zuckerberg, e poi cambiare ancora per Apple, e così via. L’interoperabilità sarà chiave per uno sviluppo accessibile di questa tecnologia».
Per fortuna, continua Quintarelli, «l’Unione europea pare che stia andando in questa direzione con il Digital Service Act. I regolatori hanno capito che è un valore, per cui credo che non consentiranno la creazione di un ambiente chiuso in mano a un soggetto dominante sul modello di WhatsApp: se non sarà aperto, il metaverso resterà un’applicazione chiusa di proprietà di un’azienda, anziché di tutti gli utenti».
L’interoperabilità non è di certo l’unica criticità legata agli sviluppi futuri del metaverso (si dovrà pensare, ad esempio, ai problemi alla vista che può sviluppare chi indossa un visore per molte ore). Ma non c’è da temere per un’eventuale dipendenza su larga scala dal metaverso, come in un romanzo fantascientifico, sull’esempio di “Player One”, il romanzo di Ernest Cline poi ripreso da Steven Spielberg nel suo “Ready Player One”.
«Nei primi anni ‘80 uscì su “Famiglia Cristiana” un articolo che parlava della dipendenza dai computer, un pericolo che secondo loro ci avrebbe portato tutti alla morte. La paura di queste cose è un evergreen, e le dipendenze ci sono per ogni cosa, caffè, sigarette, la guida di un’automobile in autostrada. La dipendenza è solo una degenerazione di un’abitudine. Può esserci quella del metaverso come per tutte le altre cose, ma questo non rende il metaverso un problema», dice Quintarelli.
All’inizio tutte le cose nuove fanno paura ed è difficile prendere le misure, ma con il tempo ci si abitua e si impara a controllare anche quelle. «Già solo qualche anno fa era difficile immaginare che qualcuno potesse inviare tanti messaggi con il telefono come facciamo oggi, invece adesso è uno scambio continuo di messaggi brevi: è semplicemente cambiata l’etichetta. Allo stesso modo oggi sembra difficile pensare di lavorare in una realtà virtuale, ma un giorno sarà così per tutti o quasi, ed è inevitabile», dice Quintarelli.
Non Fungible Token e metaverso
Se il metaverso è una destinazione ormai prossima, l’espansione del mercato dei Non Fungible Token, o Nft, è altrettanto visibile all’orizzonte. E questi strumenti sembrano legati all’evoluzione stessa della realtà virtuale.
Gli Nft sono letteralmente gettoni non riproducibili, cioè l’atto di proprietà e il certificato di autenticità di un bene: li si può immaginare come un documento originale e unico, perché scritto su una blockchain, quindi non modificabile.
Nel metaverso gli Nft sono quelli che permettono l’esistenza di beni virtuali, e la loro proprietà. Nel caso dei videogiochi, ad esempio, gli Nft proteggono un oggetto virtuale – si pensi agli abiti indossati da uno dei personaggi di Fortnite o di Call of Duty. Proprio su Fortnite, Balenciaga ha creato una nuova collezione ad hoc per gli avatar; Ralph Lauren ha ripreso la collezione autunno-inverno 2021 in capi digitali per giocare su Roblox; Benetton è sbarcato su Animal Crossing con una capsule collection digitale.
Esiste già un mercato di Nft, ricco e vario. Ma ancora non è entrato nella quotidianità di tutti. Lo farà, quasi inevitabilmente, quando il metaverso diventerà una parte della realtà per la maggior parte delle persone: a quel punto ogni bene di valore sarà rappresentato da un Nft.
La diffusione dei Non Fungible Token e l’espansione del metaverso sono insomma soprattutto un’occasione per fare tutto ciò che con le distanze, gli strumenti e le opzioni del mondo reale sembra complicato.
«Nella realtà virtuale», spiega Quintarelli, «si può interagire con altre persone a grandissima distanza, avendo una percezione simile a quella di essere nello stesso ambiente, che è diverso dal guardarsi in uno schermo: garantisce un’interazione migliore tra le persone e restituisce una percezione migliore dello spazio circostante. In futuro il metaverso ci consentirà anche di visitare luoghi in cui non siamo mai stati», dice Quintarelli.
Non si tratta di avere un’opinione positiva o negativa in merito: si tratta di sviluppi inevitabili. «Il metaverso è destinato a entrare nel novero delle tecnologie che usiamo», conclude Quintarelli, «come la corrente elettrica o Internet o gli smartphone. La società si adatta per usare questi strumenti al meglio. All’inizio queste regole non ci sono, poi emergono: oggi con i telefoni siamo potenzialmente sempre reperibili, però abbiamo pensato a una legge sul diritto alla disconnessione. Mi ricordo che da piccolo, quando cominciavo a bazzicare le reti, non c’erano neanche i reati di accesso abusivo al sistema informatico, potevi andare e ravanare nei computer degli altri e non era neanche reato. È una tecnologia importante e arriverà».
Quando? «È come se fossimo a fine anni ‘80 rispetto all’esplosione di Internet, che è arrivata poi nel 2001 con l’Adsl. Ma prima del 2001 eravamo quattro gatti».